Corriere della Sera, 8 settembre 2021
Intervista a Paolo Gentiloni
Al Meeting dell’Amicizia di Rimini, Paolo Gentiloni ha detto al direttore del «Corriere» Luciano Fontana che quella del Recovery è «una sfida che devono cogliere le forze politiche, sociali, culturali». E, da commissario Ue all’Economia, si è chiesto se «in Italia sia chiara la posta in gioco dei prossimi mesi».
Che intendeva dire, commissario?
«Che andiamo verso l’autunno più importante per l’economia italiana da mezzo secolo, un autunno storico».
Perché così importante?
«Perché ci giochiamo l’ingresso in questo piano europeo che può dare qualità, durata e spinta alla ripresa. Il fatto che si vada verso questo appuntamento in un clima di ottimismo mi pare positivo. Lo percepisco in generale in Europa: i dati di crescita dell’area euro nel secondo trimestre, più 2,2%, sono anche meglio delle prime stime. Insomma, malgrado le difficoltà c’è una forte ripresa che può portare l’area euro a crescere fra il 5% e il 6% quest’anno. E in Italia è particolarmente evidente: l’ho visto a Cernobbio incontrando molti protagonisti delle imprese e lo vedo nei numeri, perché l’indice complessivo delle aspettative dei manager (il composite Pmi, ndr) è al punto più alto da 15 anni».
Dov’è il problema allora?
«L’ottimismo fa bene. È fondamentale però che si abbia la consapevolezza di qualche problema che c’è e della sfida del piano europeo. Per questo l’autunno è così importante. Noi ora avremmo potuto trovarci di fronte a un’economia europea in macerie. Le politiche espansive, la risposta dei governi e dell’Unione europea ci consegnano invece un quadro diverso. Ma ora deve agganciarsi ai grandi progetti del Recovery, ai fondi collegati e all’insieme di questa sfida».
Alcuni credono di vedere l’inizio di un boom, altri solo un rimbalzo temporaneo. Perché lei parla di problemi che restano?
«Quale strada prenderemo a questo bivio dipende da noi. Da noi europei e da noi, in particolare, in Italia. Come Paese abbiamo perso quasi il 9% nel 2020 e nel 2021 o 2022 potremmo tornare alla traiettoria di crescita che immaginavamo tre anni fa. Ma non è che quella traiettoria ci rendesse felici. Dunque la chiave di tutto è se la crescita sarà duratura e sostenibile: questa è la sfida che inizia quest’autunno. Perché fin qui l’Italia ha lavorato con risposte di emergenza e elaborato un buon Piano nazionale di ripresa e resilienza, al quale è corrisposto l’esborso di un prefinanziamento europeo. Ma ora i progetti vanno messi a terra e, man mano che lo sono, proseguiranno gli esborsi. Inutile dire che l’Italia è cruciale per l’intera operazione: dei 48,6 miliardi distribuiti dalla Commissione come prefinanziamenti, 25 sono andati all’Italia. Questo è il tema, visto da Bruxelles».
E visto da Roma?
«È un insieme di impegni nero su bianco. L’obiettivo è trasformare il tasso di crescita dei prossimi anni. Gli impegni sono promossi dal governo italiano, approvati da Bruxelles e prevedono tempi precisi per gli investimenti e per alcuni interventi. Per stare alle scadenze di quest’anno, sono da completare riforme su giustizia civile, concorrenza, regime fallimentare e poi la legge-delega sul fisco. Questo quartetto è molto, molto rilevante e richiede misure legislative diverse. Si tratta di un piano vincolante. Si è parlato tanto dell’Europa come vincolo esterno, ma questo è una sorta di vincolo interno: il piano è disegnato dalle autorità italiane».
Secondo lei in Italia c’è la consapevolezza di questo percorso vincolante con tempi e tappe precise?
Nel 2020 da completare le riforme su giustizia civile, regime fallimentare, concorrenza e poi la legge-delega sul Fisco: un quartetto rilevante
«Il governo ha le idee chiare. E il parlamento, quando si arriva al dunque, ha mostrato fin qui una buona consapevolezza. Manca un po’ a mio avviso – ma forse è una mia percezione – il senso di questa missione nazionale».
Dove manca?
«In generale, nel Paese. C’è una tendenza a seguire i fuochi del giorno che si accendono a intermittenza, su cui il dibattito si concentra. C’è meno la tendenza ad avere chiaro che stiamo entrando in un autunno cruciale, che giustificherebbe un livello di unità e di convergenza attorno a questa missione nazionale. Se abbiamo un piano vincolante, su diversi anni, che le autorità italiane si sono date – un piano dal cui successo dipende così tanto del futuro del Paese – a mio avviso dovremmo averne piena consapevolezza. Il parlamento e le parti sociali lo accettano, ma il senso della missione di fronte a noi dovrebbe rafforzarsi. E non parlo di tempi ed esecuzione, perché so bene quanto sia difficile la messa a terra».
Vuole dire che non basta una legge scritta in un palazzo, per realizzare le riforme che dovrebbero trasformare la società italiana dopo un quarto di secolo di paralisi?
«Penso alla tensione e al clima vissuti nei grandi periodi di crisi e di ricostruzione del nostro Paese. La recessione per fortuna non ha lasciato macerie: abbiamo la base per proiettarci verso questa trasformazione. Il grande ottimismo, i segnali positivi sono una prima parte di ciò che ci serve. Ma a questa vitalità deve corrispondere una consapevolezza della missione, appunto, altrimenti l’ottimismo può portarci a sottovalutare le sfide che abbiamo davanti e magari a pensare – sbagliando – che le risorse non sono da conquistare mese per mese, semestre dopo semestre, ma sono già acquisite. Può farci pensare che la questione del debito sia svanita».
Ma il Patto di stabilità è sospeso, no?
«A Bruxelles il mio pane quotidiano è evitare le strette premature e permettere che si continui con le politiche espansive, finché serviranno. Ma è chiaro che nei Paesi con debito più alto il problema non è svanito. Ora abbiamo dei risultati, c’è una risposta dinamica di tantissime imprese. Il punto è che, per una volta, questa società molto frammentata e individualista che noi siamo ritrovi il senso di una missione nazionale. È fondamentale per reggere la sfida nella sua complessità. E ho fiducia perché Mario Draghi su questi obiettivi ha una leadership riconosciuta».
Bruxelles raccomanda da anni una riduzione del cuneo fiscale, la differenza fra salari netti e costo del lavoro. Con la delega fiscale, si può fare in deficit?
«Noi alla Commissione abbiamo sul fisco messaggi semplici. Primo: ridurre l’evasione fiscale, che in Italia è ancora relativamente alta rispetto ad altri Paesi comparabili. Secondo: continuare lo sforzo di alleggerire la tassazione sul lavoro. A questo naturalmente si aggiungono considerazioni che riguardano l’insieme dei pacchetti di riforme. Noi dobbiamo essere molto, molto prudenti nell’inserire aggravi di spesa permanenti. Se un Paese ad alto debito usasse l’occasione del piano di Recovery per avere un aggravio permanente nel bilancio, sarebbe un errore».
Dunque la riforma fiscale non si fa in deficit?
«Ci possono essere tempi e aspetti particolari, non esistono principi assoluti. Ma in generale deve valere una sostanziale neutralità da un punto di vista della finanza pubblica. Dopo la pandemia e con il traguardo della transizione climatica è giusto discutere il patto di stabilità per evitare ritorni all’austerità e studiare nuove regole che abbiano ragionevolezza, realismo e gradualità. Ma nei Paesi ad alto debito serve una cautela particolare».
Il governo ha le idee chiare. Il Parlamento ha mostrato una buona consapevo-lezza. Ma manca un po’ il senso di questa missione nazionale
Lasciar scadere quota 100 è fra le condizioni del Recovery. Significa ritorno alla legge Fornero o è possibile una terza via intermedia?
«Gli strumenti sono una materia per il governo e il parlamento italiani. Noi ci rifacciamo a quel che è stato scritto dall’Italia nel piano, negoziato e approvato dall’Unione europea. Vale quello».