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 2021  settembre 08 Mercoledì calendario

Biografia di Valeria Viganò

«Adesso c’è solo un’attenzione smodata alla storia e non importa il linguaggio, non c’è la lingua. Non c’è nessuna tensione. Basta che un romanzo scorra, che avvengano delle cose e buona notte al secchio!» Mi dice Valeria Viganò. Riuscire a maneggiare bene la propria scrittura è il pallino fisso dell’autrice. Come darle torto? La Viganò giocava a calcio tutte le domeniche a casa di Edoardo Albinati a Roma. Ma erano gli anni 80 dello scorso secolo, tutt’altra storia. Si davano un sacco di mazzate, soprattutto con Rocco Carbone, perché Carbone era molto aggressivo quando giocava. Aveva quel piglio tipico suo, che poi l’autrice riconosce nel ritratto fatto da Trevi nel suo recente romanzo Premio Strega. Adesso l’autrice si divide tra una casa in campagna e una a Roma, a Trastevere. Scrivere scrive. Però è un’autrice che ha bisogno di tempo. Così, a parte un reportage dall’Islanda sulle tracce di W. H. Auden e un saggio sulla Cvetaeva, il suo romanzo più recente è stato pubblicato da Nottetempo dove c’è un attacco memorabile sull’arte di fare bene l’amore. La Viganò è un’autrice appartata, una che preferisce fare un lento lavoro artigianale sulla lingua, più che sulla storia da raccontare, e oggi sembra difficile riuscire a conciliare i suoi tempi, la sua idea di letteratura, e le esigenze degli editori. Così capita che una scrittrice importante, una che ha conosciuto tutta la redazione Theoria quando gravitavano in redazione Marco Lodoli, Sandra Petrignani, Repetti e Cesari, non pubblica un romanzo da dieci anni. Prima si diceva di queste interminabili partite da Benedetta Loy e Albinati. «Benedetta giocava bene», dice la Viganò. Ma lei, a detta degli esperti, giocava molto meglio. 
Io me li immagino lì, questi giovani scrittori. Valeria arrivava da Milano, e vedeva Dacia Maraini perché avevano a che fare col movimento delle donne. Si vedevano spesso proprio per amicizie comuni. E tutto sembrava possibile. Anche spolmonare su un improvvisato campo da calcio poteva sembrare eroico. «Era un periodo molto ricco culturalmente», ripete Valeria. Ma la sua non è nostalgia, bensì rabbia. Scriveva di cultura sull’Unità, su Repubblica, sul Domenicale del Sole 24 Ore. Se oggi ci fosse un quotidiano con quella vivacità lei ci scriverebbe con piacere. Ma francamente, ascoltandola parlare, è come se alcune cose non torneranno più. Nel 1989 esordì con una raccolta di racconti per Theoria che fece molto parlare di sé. Il libro si intitolava Il tennis nel bosco. Theoria è stata un’avventura meravigliosa: Acheng, il primo Carrere, Alexander Stuart e il suo Tribù e tante altre idee letterarie e saggistiche che poi hanno creato humus per gli anni a venire. La Viganò per loro e per tante altre case editrici ha anche tradotto romanzi e racconti. Mi dice sempre che dopo l’esordio l’hanno cercata in tanti. Succedeva così. Avevi una specie di percorso da seguire: pubblicazione su rivista, libro con una raccolta di racconti e solo successivamente, se dimostravi capacità e un’idea di letteratura, potevi aspirare a pubblicare il romanzo. A lei è accaduto così. Mentre scriveva aveva un lettore d’eccezione: Severino Cesari. Finì il romanzo e divenne Prove di vita separate, per Rizzoli. La storia è presto detta perché come tutta la produzione dell’autrice anche qui siamo alla fine. Può essere una fine decretata dalla perdita della memoria, come in La scomparsa dell’alfabeto ma può essere, come in questo caso, la fine di un amore. La fine di ogni rapporto e legame umano può avere redenzione nella scrittura, e io di questa redenzione della Viganò mi nutro attraverso il suo modo di raccontare. Le trame dei suoi romanzi, i suoi racconti, non procedono mai per frammenti; la costruzione stessa delle storie raccontate accompagna e descrive i rapporti umani. In Prove di vita separate c’è già tutto questo. Marina e Mabel si amavano ma hanno finito le parole e sono costrette ad allontanarsi. Non sapremo mai il perché, ma è tutto già detto. 
Lo sguardo della Viganò è rivolto alla qualità letteraria della Woolf, della Cvetaeva, di Ingeborg Bachmann. «È un po’ difficile il tuo libro» le hanno sempre detto nelle redazioni. «Bello, però difficile». Secondo la Viganò gli editori contemporanei guardano alla storia e non vogliono autori. Vogliono solo libri che funzionano.  
Per la Viganò invece la letteratura non deve mai essere consolazione e svago. La letteratura è il luogo dove vicende, immaginazione, pensiero, sono importanti. La letteratura per l’autrice ha una funzione precisa e l’imbarbarimento più evidente è avvenuto nella lingua scritta. Nello stile. Da 35 anni tiene una scuola di scrittura, e potrei scommettere che di queste cose parla e, più che persuadere chi vuole scrivere, fa di tutto per dissuadere dalla scrittura facile, dalla pubblicazione compulsiva. 
Nei suoi libri c’è sempre musica. Musica rivelata, come nel caso di L’ora preferita della sera in cui per ognuno degli otto racconti c’è la colonna sonora di una canzone d’autore. Sono racconti di latitanti, di legami d’amore, di vedovi, la domenica, coi nipoti. Anche qui, come sempre, è lo stile preciso della Viganò a emergere e dare significato a storie comuni di quotidianità. Ma è musica anche il suo lessico e la sua sintassi, a testimonianza di un lavoro artigianale preciso e caparbio. Un giorno Valeria mi ha rivelato che impiega anche quattro, cinque anni per avere la stesura definitiva di un libro. Pensare di aver sentito autori dire di scrivere un romanzo in trenta giorni mi dà le vertigini e mi fa pure girare le balle. 
Se con Il tennis nel bosco, anch’esso composto da 8 racconti come il successivo per Feltrinelli, la Viganò sfruttava il suo talento iperrealista per raccontare solitudini, drammi, pomeriggi oziosi e donne ferme con la testa sul volante, c’è poi una parte della scrittrice in cui tutto è evocato, rarefatto. È così nel suo diario di viaggio intitolato, con sprezzo del pericolo, Siamo state a Kirkjubæjarklaustur, quasi un romanzo d’atmosfera. Valeria e Ciu, le protagoniste del viaggio, rendono evidente l’assoluto e la sua anima, che qui in Italia è facile dimenticare. Boh, potrei anche sbagliarmi, ma gran parte delle cose scritte dall’autrice potevano diventare un film di Nanni Moretti o della Comencini. Sai quante volte, leggendo Il piroscafo olandese e Prove di vita separate mi son detto: stavolta è la volta buona! E invece ancora nulla. Parlare con Valeria Viganò aiuta a capire che è successo qualcosa, c’è stata una rottura tra la sua autorialità, quella della Petrignani, Lodoli, Fortunato, la Rasy e «qualcuno ha ceduto il passo», dice lei, «a un modello americano di fare editoria». Non sa dire esattamente quando, ma è arrivato il modello delle vendite che ha coinciso con la letteratura parlata, la lingua semplificata. Ma le letterature sono tante, ci può stare l’alto e il basso, e non si spiega perché non possa esserci spazio per una letteratura colta, complessa, meno semplice, lontana dal mainstream. So che sta girando un suo romanzo nuovo, inedito, tra gli editori. Io, da lettore, farei a gara per leggerlo e averlo sullo scaffale. C’è qualche editore dubbioso? Insomma, quando vedremo un suo nuovo libro in uscita?