Linkiesta, 8 settembre 2021
L’insopportabile Sally Rooney
Non ho mai letto Sally Rooney. Sally Rooney mi è insopportabile. Le due affermazioni non sono legate né causalmente né temporalmente: la seconda è della settimana scorsa.
Sally Rooney non l’ho letta quando la leggevano tutti, ne parlavano tutti, ci si sdilinquivano tutti. Quando, addirittura, i miei conoscenti (gente che avrebbe molto bisogno d’alzarsi alle quattro e andare a scaricare cassette ai mercati generali) si dividevano tra chi tifava Rooney e chi citava Rachel Cusk (non ho mai letto neanche lei).
Non l’ho letta per, credevo, ragioni già sintetizzate da Citati e da Amis.
Negli anni Novanta, Sette dedicò una copertina a Stephen King. Come s’usava allora, nell’articolo venivano interrogati su King vari personaggi, tra i quali Pietro Citati. Che diede una risposta che mi arrubbo da trent’anni, ogni volta che voglio con disprezzo ignorare qualcosa: «Non ho ancora letto le Upanishad, si figuri se leggo Stephen King» (dev’essere una formula in voga tra i letterati del Novecento: mi dicono che Carlo Fruttero rispondesse ad analoghe richieste di pareri su contemporanei «non ho ancora letto Guerra e pace»).
All’inizio d’agosto, Martin Amis ha risposto così a una domanda del Guardian sul leggere i viventi: «Leggo i miei amici, Zadie Smith e Nick Laird e Will Self e altri, ma non tengo d’occhio il sensazionale nuovo romanzo di Tizio Caio, genio venticinquenne, perché sarebbe un modo economicamente svantaggioso di spartire il tempo di lettura: la loro roba – non quella di Will e Zadie – non ha superato l’esame del tempo, diversamente da quella dei più anziani. Potrebbe diventare parte del canone letterario; o potrebbe sparire nel nulla. Non voglio correre il rischio».
Che è un modo verboso di dire che, se hai tre pomeriggi da dedicare alla lettura, sarà meglio tu ti metta in pari con Guerra e pace, invece di buttarli su una moda del momento come Sally Rooney.
(Sì, la sento l’obiezione «ma anche Tolstoj è stato una moda del momento prima di diventare un classico»; sento anche quella «ma chi è quel supereroe della lettura veloce che fa fuori Guerra e pace in tre pomeriggi?»).
Adesso di Sally Rooney sta uscendo il nuovo romanzo (ieri nei mercati anglofoni; in Italia lo pubblica Einaudi in primavera), e io ho deciso che è insopportabile.
Credevo di averlo deciso per invidia.
Perché il Guardian ha raccontato che le librerie ieri sarebbero rimaste aperte dalla mezzanotte, mica uno poteva aspettare un’ora civile per comprare il libro che non si può non avere: è una versione di massa di quando Miranda Priestly – la cattiva del Diavolo veste Prada – pretendeva che la segretaria procurasse alle sue bambine le bozze dell’Harry Potter non ancora uscito.
Perché Carrie Bradshaw – il personaggio di Sarah Jessica Parker in Sex and the city – la leggerà, o almeno così ci dicono le ultime foto di scena pubblicate dai tabloid: Rooney è il nuovo Manolo.
Perché le più sofisticate tra le influencer americane si sono fatte fotografare mentre la leggevano in anteprima, e a me torna in mente Il nome della rosa, e quell’«il libro più comprato e meno letto» che ho ripetuto come una scema per tutta l’adolescenza, dopo averlo da piccola sentito dire in casa, forse l’unica casa italiana nella quale nel 1980 ci si piccasse di non aver acquistato Eco. Salvo poi crescere e scoprire (io, la pappagalla scema) che l’avevano letto tutti tranne me: sempre gli anticonformismi sbagliati.
Finirà che scoprirò che Rooney scrive bei romanzi, e sarà troppo tardi. Sarà dopo aver passato la fine dell’estate a detestarla. Dico, ma l’avete vista l’intervista che le ha fatto il New York Times? Un’intervista nella quale, dopo aver evidentemente detto al truccatore «truccami come fossi struccata», e al parrucchiere «pettinami come non mi fossi lavata i capelli», Rooney pensa bene di dire, all’intervistatrice e a noi: che è marxista, e non ritiene di dover guadagnare più di chiunque altro (Sally, Persone normali in Italia ha venduto quarantasettemila copie: attendo bonifico marxista con cui mi cedi metà delle tue royalties); che la sua protagonista – una scrittrice di gran successo – esce con uno che non ha idea di chi sia e a lei questo mica potrebbe più capitare (Sally, sopravvaluti l’attenzione del pubblico); che, in un tempo di crisi, non si sa come giustificare l’aver scelto la professione d’inventori di storie (puoi sempre fare l’infermiera volontaria come Candy Candy, Sally); che tuttavia vuole fare opere d’arte anche mentre il mondo attorno a lei cade a pezzi (come Marco Mengoni).
Dev’essere fatta apposta, tutta questa dolenza e questa finta contrizione e questo feticismo della figura dell’artista, qualunque cosa esso sia, non possono che essere una strategia commerciale. Non può esistere davvero una così insopportabile se non per somigliare ai suoi insopportabilissimi coetanei e lettori.
È ovvio che i suoi personaggi lascino perplesso chi ha più di quarant’anni, ha scritto la settimana scorsa il recensore del New York Times. Che ha trovato il modo di scusarsi con noi per quell’intervista, mentre fingeva di darci dei superficiali. Se osservate distrattamente il mondo letterario, ha scritto, è normale che, più che un’autrice, vi sembri una porzione da venti dollari di toast all’avocado.
Grazie, recensore, per il termine di paragone perfetto: posso farlo mio?
Quelli che non capiscono la nostalgia per il Novecento non si capacitano che preferissimo avere, come autore da esibire, Umberto Eco; come traguardo di lettura le Upanishad; come oggetti feticcio certi Kundera in azzurradelphi. I nati dopo il 1980 non sentono la mancanza di tutte queste complicazioni: nelle loro librerie, ci sono squisiti toast all’avocado.