la Repubblica, 7 settembre 2021
Il nomeclatore, ovvero l’assistente vocale prima di Google
I “nomenclatores”, motori di ricerca umani, avevano il compito di sussurrare ai propri padroni i nomi da ricordare. Perché l’arte della mnemotecnica passava attraverso l’udito
di Maurizio Bettini
ARoma esisteva una categoria di schiavi che svolgeva una funzione davvero originale. Erano detti nomenclatores e avevano il compito di far ricordare al padrone i nomi di coloro che incontrava per strada perché potesse salutarli in modo corretto; cosa che assumeva un’importanza particolare nel caso in cui fossero al servizio di un candidato alle elezioni, quando è necessario manifestare la massima familiarità soprattutto con gli sconosciuti. In un’epoca in cui i sussidi di tipo digitale o visuale non erano stati ancora inventati, e in compenso gli schiavi abbondavano, certe funzioni venivano svolte attraverso strumenti (ahimé) di natura umana. I nomenclatores però presentano un tratto che li rende ancora più interessanti. Ci viene detto infatti che portavano un singolare nomignolo: letteralmente “farcitori”, un termine che indicava coloro che facevano salsicce. Perché mai li avranno chiamati in questo modo? Ce lo spiega un antico grammatico: si chiamano “farcitori” i nomenclatori che, senza farsene accorgere, per così dire infarcivano i nomi di quelli da salutare nell’orecchio del candidato. Dunque il nomenclator, colui che rammenta il nome di qualcuno all’orecchio di qualcun altro, agisce come un salsicciaio. Di conseguenza le orecchie del destinatario costituiscono il contenitore delle informazioni che riceve, e lo schiavo ci infarcisce dentro i nomi di cui costui deve ricordarsi. Come si vede, l’azione di “infarcire” informazioni nelle “orecchie” di qualcuno ha direttamente a che fare con l’intento di agire sulla sua memoria: colui che infarcisce di nomi le orecchie di qualcun altro vuole metterlo in grado di simulare una memoria che non ha, ovvero di arricchire, ampliare la sua memoria, come se si trattasse (diremmo noi oggi) di inserire nuovi dati nel disco di un computer. A questo punto la domanda è inevitabile: per i Romani, che cosa hanno a che fare le “orecchie” con la “memoria”? Ce lo spiega Plinio il Vecchio, secondo il quale la memoria era collocata per l’appunto nel lobo dell’orecchio, la parte del corpo umano che, di questa fondamentale facoltà spirituale, costituiva la sede anatomica. Tant’è vero che, quando si voleva “far ricordare” a qualcuno un impegno preso, gli si toccava proprio il lobo dell’orecchio, come a dire: «ricordatene, eh!».
Potremmo essere tentati di relegare queste antiche pratiche o credenze nello sgabuzzino delle curiosità, ma sarebbe un errore. L’orecchio della memoria, ovvero la memoria nell’orecchio, costituisce infatti un simbolo capace di farci riflettere immediatamente su uno dei tratti più determinanti nella formazione della cultura romana.
Ossia il suo legame con l’oralità e con la “parola parlata”. Se i Romani collocano la memoria nell’orecchio è perché sono ancora consapevoli del fatto che il corpus delle conoscenze che albergano in ciascun individuo si forma per via “aurale”, come appunto si dice. «Le cose antiche stanno nell’orecchio», recita un proverbio ghanese che, a dispetto dell’enorme distanza geografica e temporale, potrebbe valere anche per Roma, perché esprime la stessa sostanza culturale. Facendo dell’orecchio il contenitore dei ricordi, anche i Romani mostrano di sapere che il patrimonio della memoria e della conoscenza – quello che fa essere se stessi non solo gli individui, ma anche i gruppi sociali – costituisce il sedimento lasciato in primo luogo da dialoghi, monologhi, racconti, canti, formule, pronunciamenti solenni, e non da una filza di segni grafici tracciati su una pietra, una tavoletta o un foglio: dove non è più questione di orecchie, ma di occhi.
Nei secoli successivi la memoria delle persone e delle comunità sarà invece sempre più dominata da una vera e propria nebulosa di parole scritte, una massa di caratteri alfabetici che progressivamente si impadroniranno di ogni genere di conoscenza o rappresentazione culturale – dalla religione, non a caso identificata proprio con un Libro, alle sillogi delle leggi; dai “libri” dei poeti alle registrazioni degli accadimenti storici; dalle raccolte di epistole agli umili appunti relativi alle cose da fare; e così di seguito. In una società tanto massicciamente dominata dalla scrittura – che sempre più lo sarà con l’avvento della stampa e infine del digitale – inevitabilmente la memoria passerà sempre meno attraverso la parola pronunziata e sempre più attraverso quella scritta, sempre più attraverso la vista e sempre meno attraverso l’udito. Oggi nessuno si sognerebbe più di credere, o di affermare, che la memoria risiede nel lobo dell’orecchio. Quei venti “caratteruzzi”, come li chiamava Galileo Galilei, si sono dimostrati davvero onnipotenti. A tal punto che Victor Hugo, con meravigliosa fantasia, immaginerà che le prime forme architettoniche dell’umanità – dolmen, cromlech, galgal, tumuli – articolassero le loro pietre alla maniera di sillabe, parole, verbi, frasi, addirittura nomi propri: monumentali presagi di una scrittura ancora a venire.
Anche a Roma l’incidenza esercitata dalla “litteratura”, come i Romani chiamavano la scrittura, è stata grande, non c’è dubbio, ma questo non può cancellare l’altra faccia della medaglia: ossia il fatto che alcune fra le forme costitutive della cultura romana si sono in realtà concretizzate in un ambito di carattere orale e hanno continuato nel loro cammino attraverso il medium della parola parlata. Per lungo tempo a Roma “conoscere” fu sinonimo di “ascoltare”.