Corriere della Sera, 7 settembre 2021
Le bizzarre ragioni della memoria
Se è vero che gli scrittori, al fondo, non fanno che lavorare sulla memoria nelle sue molteplici forme, è altrettanto vero che la memoria, a un certo punto, finisce per ripagarli o per vendicarsi di loro, a seconda del capriccio. Mi ha colpito la chiusa del ricordo che Ernesto Ferrero, sul Sole 24 Ore, ha dedicato a Daniele Del Giudice: «Fra cent’anni parleranno ancora di lui». Una certezza e, insieme, un auspicio. Intanto, ha impressionato il coro imponente di voci in omaggio dello scrittore, morto dopo una inesorabile malattia che l’ha ridotto al silenzio prestissimo. Un amico ha commentato con amarezza: «Bisogna morire per ottenere quel che meriti». In effetti, Del Giudice non ha mai avuto molti lettori, ma c’è da immaginare davvero che resista nel tempo, diversamente dai tanti che godono di luminose fiammate di successo e vengono (non tutti, per fortuna) rapidamente dimenticati. Una delle ragioni della «resistenza» di Del Giudice sta nel fatto che ha cercato di «vedere» (e conoscere e raccontare) il proprio tempo senza assecondarne le sirene. Tant’è vero che è stato capito da pochi. In vita non ha mai vinto né lo Strega né il Campiello, i due premi maggiori. La sua prosa, la sua esattezza, il suo immaginario non sono per niente affabili (altro che leggerezza), e tanto meno «popolari», ma ciò non toglie che diano ossigeno al pensiero, al piacere mentale, alla bellezza, alla conoscenza. Il populismo letterario vigente, simmetrico a quello politico, tende a considerare pressoché fallimentare un’opera di scarso successo, magari ritenendola frutto di elitarismo intellettualoide, sostanzialmente inutile, noiosa, deprimente, persino un po’ nociva per la salute pubblica. Si parla tanto in questi giorni di Roberto Bazlen, protagonista dell’ultimo libro di Calasso e del romanzo d’esordio dello stesso Del Giudice. In una lettera del 1925, il futuro fondatore di Adelphi esortava l’amico Montale a leggere lo sconosciuto Svevo: Senilità, scriveva Bazlen, «è l’unico romanzo moderno che abbia l’Italia» (era uscito nel 1898, cioè 27 anni prima!). E La coscienza di Zeno? Un altro capolavoro, anche se: «Devi superare le prime duecento pagine, che sono piuttosto noiose…». La memoria si sarebbe vendicata, alla lunga, dei distratti contemporanei di Svevo e un po’ anche del suo bizzarro promotore.