Corriere della Sera, 7 settembre 2021
Smart working, la stretta di Brunetta sulla pubblica amministrazione
La proposta del ministro Brunetta di prevedere il graduale rientro in presenza dei dipendenti della Pubblica Amministrazione, con l’obiettivo di ridurre al 15% l’attività da casa è arrivata come un cerino in una polveriera. Il tema dello smart working nella PA, infatti, era già molto «infuocato» da tempo: il lavoro da remoto infatti finora ha vissuto di regole emergenziali e senza una vera normativa specifica.
Quello della Pubblica amministrazione, tra l’altro, è un mondo variegato e con diversità sostanziali: durante la pandemia ci sono stati settori (sanità e trasporti su tutti) che non hanno potuto adottare lo smart working, altri (soprattutto istruzione e ministeri) che hanno fatto un uso davvero massiccio del lavoro da remoto.
Partiamo dal valore complessivo di tutta la PA: in base alle analisi elaborate da Fondazione Studi Consulenti del lavoro sulla base dei dati forniti dalla Ragioneria dello Stato e dal Formez-«Rapporto di monitoraggio sull’attuazione del lavoro agile nelle PA», a marzo 2020, su 3,2 milioni di dipendenti pubblici, 1,8 milioni erano in smart working (56,6%). A marzo 2020 però eravamo all’apice della crisi; a settembre, invece, una buona parte dei pubblici dipendenti era tornata in presenza e meno della metà (46,2% per un totale di 1,5 milioni) continuava a lavorare da remoto.
Da allora però le percentuali non sono cambiate molto e il dato più recente esistente riporta che a maggio 2021, la quota di dipendenti pubblici in smart working risulta essere al 37,5%, pari ad un totale di 1,2 milioni di lavoratori. Nell’attesa di indicazioni sulla quota del 15% indicata dal ministro Brunetta (potrebbe essere riferita ai lavoratori oppure al tempo di lavoro) e ipotizzando che si riferisca al numero di lavoratori interessati, significa che lo smart working nel pubblico sarebbe consentito in tutto a 500 mila dipendenti.
Un anno fa
A settembre 2020 nelle amministrazioni centrali il 71% era in modalità «smart»
Cifre ben lontane da quelle viste finora. Per esempio, nelle funzioni centrali (Ministeri, agenzie fiscali) e nel settore dell’istruzione (Università, ricerca e scuola) sia durante l’emergenza che nei mesi successivi, (a settembre 2020) risultava ricorrere allo smart working il 71,1% del personale delle PA centrali e il 69,4% degli insegnanti e accademici: in pratica sette su dieci.
Nelle amministrazioni locali (regioni, aree metropolitane, comuni), la quota di dipendenti in remoto è da sempre risultata più bassa (46,5% durante il primo lock down e 30,9% a settembre 2020). Un discorso a parte merita il comparto sanitario, dove solo l’8,3% dei dipendenti pubblici, durante il picco dell’emergenza, ha lavorato da casa. Ovvia conseguenza dei forsennati ritmi tenuti negli ospedali a causa dell’alto numero di ricoverati.
Al di là di quelle che saranno le indicazioni del Ministero, appare indubbio che se da un lato, il lavoro agile dovrà essere ricondotto nelle percentuali di fisiologica funzionalità, dall’altro l’innovazione introdotta dal nuovo modello, dovrà essere supportata da una nuova organizzazione e disciplinata da nuove norme.
«L’esperienza maturata nel periodo emergenziale che ha improvvisamente obbligato un elevatissimo numero di lavoratori a operare da casa va utilizzata per migliorare lo strumento e renderlo una modalità di lavoro alternativa – commenta Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi Consulenti del lavoro -. Certamente è necessario un intervento normativo che meglio regolamenti i diversi diritti e i doveri di entrambe le parti del rapporto, come possono essere il diritto alla disconnessione, la reperibilità ovvero il controllo da remoto. Insomma, lo smart working va ben strutturato in modo da farlo diventare un’opportunità per il futuro che certo non può essere l’unico modo in cui viene svolta la prestazione lavorativa».