Linkiesta, 6 settembre 2021
Il candidato di Calenda nell’era di Maria De Filippi
L’altra mattina il barista parlava con un altro cliente, mentre mi schiumava il cappuccino, e ha detto: i soldi non ti comprano la salute. Ho pensato a quella mia amica cui hanno trovato un tumore alle ovaie e la sanità pubblica l’avrebbe operata venticinque giorni dopo e poter pagare una parcella le ha permesso d’essere operata venticinque ore dopo. Ho pensato a quell’altra mia amica che m’aveva insegnato un detto genovese traducibile con «la salute senza i soldi è una mezza malattia». Ho pensato alle buste di contanti che dà Maria De Filippi alla fine delle tragedie familiari di “C’è posta per te”, cambiando la vita di qualcuno più concretamente di quanto possa cambiargliela l’essere andato in tv. Soprattutto, ho pensato a Charlotte Church.
In un documentario su Murdoch che la Bbc ha trasmesso un paio d’anni fa, si racconta che nel 1999, quando Charlotte ha tredici anni e Rupert sta per sposare Wendi Deng, alla piccina viene chiesto di cantare alle nozze, celebrate sullo yacht chiamato come l’erezione idraulica del risveglio, Morning Glory. Le viene chiesto di cantare “Pie Jesus”, un requiem di Andrew Lloyd Webber.
E la piccina obietta che quella è un’aria da funerali, mica da nozze, e le viene detto che a Rupert non importa, a Rupert piace, Rupert vuole quella, e quel che Rupert vuole Rupert ottiene. E che può scegliere tra centomila sterline e un favore, e lei pensa ma chi è che sceglie un favore, oh, dico, centomila sterline, e i discografici pazientemente le spiegano che essere in credito d’un favore da Rupert Murdoch conviene, vale più di quelle centomila sterline.
È tutto relativo, anche la ricchezza e la povertà: se devi pagare dei debiti ti servono le centomila sterline subito adesso ora, se non hai problemi preferisci essere in credito con un fantastiliardario. Se te la cavi economicamente, a “C’è posta per te” ci vai per la vanità; se sei disperato, ci vai per la busta. Se sei un aspirante qualcosa l’orologio da semiricchi è un traguardo, se sei un ragazzino un po’ sbruffone precisi – dopo giorni di ridicole polemiche – che veramente quello che hai al polso è un orologio da un po’ più che semiricchi.
(Se sei un giornalista politico, e la tua idea di dibattito culturale è Twitter, probabilmente pensi che la lotta alle diseguaglianze passi per il settore orologeria, ma in quel caso non c’è molto che possiamo fare per te su queste pagine).
È tutto relativo, anche la definizione di “privilegio”. A non vaccinarsi sono i disperati che vanno a suonare le trombette nella stazioni quando non li fanno salire sui treni a lunga percorrenza, certo. A non vaccinarsi sono le figure ridicolmente tragiche che vengono intervistate da giornali ai quali sciorinano le proprie multiple lauree, accumulate per fare punteggio in concorsi che non li hanno comunque emendati dal ruolo di supplenti, certo. Ma a non vaccinarsi sono anche i fantastiliardari.
È difficile dar loro torto. Se stai nella tua sterminata e isolata e servita e riverita tenuta nella campagna d’un qualche Paese europeo, e da lì prendi il tuo aereo privato per andare nella tua sterminata e isolata e servita e riverita tenuta nella campagna d’un qualche Paese sudamericano, e da lì prendi il tuo aereo privato per andare nella tua sterminata e isolata e servita e riverita tenuta su qualche spiaggia caraibica; se non fai mai una fila, non prendi mai un mezzo pubblico, non hai mai a che fare con noialtri mortali, posso onestamente dirti che il tuo non vaccinarti mette a rischio gli altri?
Il fantastiliardario che non si vaccina non è statisticamente rilevante, non è socialmente rilevante, non è neanche psichiatricamente rilevante. È come Bill Clinton quando gli chiesero perché si fosse andato a infilare nelle mutande di Monica Lewinsky: because I could. Perché poteva permetterselo. Perché era un gioco a rischio zero (o almeno questo sembrava). Perché nessuno avrebbe osato impedirglielo. Perché sì.
Il fantastiliardario che non si vaccina non dice che lui è lui e noi non siamo un cazzo perché, fuori dalle commedie, quelle sono cose che si pensano, mica che si dicono. Anzi, forse neanche si pensano: sono così ovvie che non c’è bisogno di pensarle.
Il fantastiliardario che non si vaccina non lo dice pubblicamente, mica è così miserabile da stare sui social o andare ospite nei talk show o dare interviste a quei giornali sempre in cerca del controcorrentismo del giorno.
Il fantastiliardario che non si vaccina al massimo lo dice a qualche amico di quelli non fantastiliardari, quelli con cui parla per sentirsi in contatto coi mortali. E l’amico mortale pensa che è molto invidioso, se potesse vivere isolato dalla plebe neanche lui si vaccinerebbe, ma non solo non può farlo: non può neppure dirlo. Giacché dire qualcosa di diverso da «sono entusiasta di vaccinarmi, non vedevo l’ora, è la cosa più bella che mi sia mai capitata» è considerato tradimento della patria in tempo di guerra.
Quando Antonella Clerici ha twittato «Credo che nessuno di noi abbia fatto il vaccino a cuor leggero. Lo abbiamo fatto per il senso di responsabilità per la comunità più fragile», i social l’hanno processata per carenza d’entusiasmo. La vita dei benestanti è peggio di quella del mediano di Ligabue, «lì nel mezzo»: non abbastanza fantastiliardari da fare come cazzo pare a loro – si tratti di non vaccinarsi o di volere un requiem durante una cerimonia di nozze – e non doverne render conto ai social; non abbastanza indigenti da considerare uno schiaffo alla miseria un orologio da qualche migliaio di euro.
Mentre i mediani su Twitter si scannavano sul giovane candidato a consigliere municipale (l’amministratore del mio condominio è più influente) e sul suo orologio, santo cielo, costoso, un amico mi ha scritto che il punto non era mica l’orologio: era la posa, la mano sotto al mento perché l’orologio fosse in primo piano.
Mi sono ricordata di Costantino Vitagliano, insuperabile tronista d’inizio secolo a “Uomini e donne”, che raccontava di quando ogni centimetro di lui era a noleggio: non metteva mai una maglietta, un accessorio, un niente che non fosse dello sponsor. Gli ingenui pensavano si facesse fotografare con aria pensosa per sembrare più intelligente; ma era solo che, con la mano sotto al mento, riusciva in una sola foto a vendere l’orologio, il braccialetto, la maglietta, la fascia per i capelli. Noi credevamo volesse sembrare intelligente, lui sapeva che eravamo stupidi.
La vita da mediani economici – anni di fatiche, botte, e mai potersi permettere di rinunciare a centomila sterline senza pensarci – è durissima, ma l’antropologia della stessa basta aver studiato le produzioni di Maria De Filippi per capirla.