La Stampa, 6 settembre 2021
Chi è Hibatullah Akhundzada, il nuovo leader dei talebani
La nuova guida spirituale dei taleban, Hibatullah Akhundzada, è dunque un altro uomo misterioso, sfuggente, dalla biografia ambiguamente smilza: dotto teologo, con figlio kamikaze, tutto lì. Ne esiste una sola fotografia, vecchiotta; da quando è stato nominato alla carica suprema è invisibile. Nessuno lo ha intravisto neppure nei giorni del trionfo, della riconquista di Kabul e della fuga del nemico americano. Nessun mistero o congiura letale: esiste, fa la Guida, ma è asceso a una sorta di programmata immaterialità.
In Occidente al Capo, al leader democratico o autoritario, è richiesto di mostrarsi in continuazione, deve essere visibile controllabile esplicito se non vuole far traballare il consenso. Che vada a correre per mostrare buona salute o che si chini, pensoso, sul derelitto di turno, il suddito lo vuole materialmente evidente. Il tweet sui social è l’ultimo congegno di questa tangibilità visiva permanente, con l’editto del minuscolo, la fatwa del banale. Biden nei giorni del disastro non può raccogliersi a meditare la lezione nella stanza ovale, che sarebbe pratica saggia, deve piangere in pubblica seduta tv, moltiplicare tortuose conferenze stampa. Se non lo facesse sarebbe accusato di arroganza, elusività: molto peggio che il disastro di Kabul. Il potere laico è palcoscenico, recita per cui non possono esserci calate di sipario.
Nel modo del potere fondamentalista avviene il contrario: il re è nascosto. Se ne conosce a mala pena il volto, la biografia presenta vuoti incolmabili, che mettono a disagio noi occidentali e ci inducono a colmarla di voci e leggende: il Rolex al polso di Al Baghdadi, il mullah Omar che, ferito dai russi, si strappa l’occhio ferito e si benda con le sue mani…
Le apparizioni pubbliche sono rare, limitate a scandire momenti chiave del potere e anche queste rivolte a pochi privilegiati, gli apostoli più intimi o in una moschea zeppa di fedeli in preghiera. In fondo un atto rituale. Si cammina sulle orme dei primi califfi, quelli dei trionfi musulmani che davano udienza sagomati dietro un tendaggio. Il suddito non doveva scorgerne il mistero. In fondo come le donne anche loro nascoste dal muro di stoffa e garza.
Di Al Baghdadi, quando con un balzo si annesse la terra tra i due fiumi, si scrutava perplessi una sola immagine, quella della predica del 2014 nella moschea di Mosul in cui annunciò la rinascita del califfato ai credenti e ai miscredenti. Poi il buio. Programmato come se la Rivelazione avesse sconfitto il tempo. La sua voce erano «fatwa» minacce editti. I continui annunci americani di averlo ucciso e le sue rinascite studiatamente provate con pigra lentezza avvolgevano ancor più questo suo sinistro potere nel mistero, gli davano forza invece che indebolirlo. Per il potere e il terrore che si dichiara al servizio del sacro e del sublime, l’oscurità è necessaria. Il prestigio del principe dei credenti non può evitare l’ombra: perché non si sogna ciò che si conosce troppo.
La stessa accortezza ha guidato il mullah Omar: una sola immagine certa, per di più sgranata, e giovanile, scattata ai tempi della guerra contro i sovietici con l’occhio già leso da una scheggia di granata, quando era un mujaheddin senza qualità. La foto che lo mostrerebbe, avvolto nel mantello del Profeta tolto dal sacrario della moschea della città vaticano dei taleban, ritto sul tetto dell’edificio di Kandahar dove mille mullah e ulema lo avevano eletto «comandante dei credenti», è un falso: il suo beghinaggio islamico avrebbe giudicato l’atto blasfemo. Da emiro dell’Afghanistan diventato taleban non si mostrava in pubblico e la sua voce per fissare decreti e leggi draconiane la si udiva attraverso audio registrati, comunica con bigliettini scritti su carta da pacchi, vive nascosto in un edificio modesto che solo la fantasia dei giornalisti è riuscita a definire «villa». Era il mistero e non il fasto che dava carisma a un uomo in fondo senza carisma, figlio di contadini poveri, teologicamente semianalfabeta, fantaccino e non condottiero di jihad. Muore ma per due anni la sua immaterialità così incombente fa sì che gli americani non se ne accorgano. Intanto al riparo di quel fantasma i taleban imbastiscono la rivincita.
La strategia del re nascosto è un’altra prova della antropologia immaginaria che abbiamo scioccamente montato sul mondo della rivoluzione islamica e che spiega la sconfitta occidentale.
Gli afghani, bellicosi e malinconici, che sentono ogni ordine come un obbligo insopportabile, descritti come turbandati primitivi, incapaci di elaborare una ideologia, tradizionalisti apolitici avviluppati nelle geografie comunitarie, allergici allo Stato perché troppo complesso e incatenati alla tribù: l’Afghanistan profondo delle analisi americane su cui sono state modellate nel 2001 la democrazia finta e le fallimentari tattiche di contro-insurrezione. Una tabula rasa di pastori che conducono nuvole di agnelli, come un gregge dell’Ade, a cui insegnare la buona novella. In fondo niente di originale: l’abracadabra del fracido Orientalismo e le classificazioni delle tribù imbelli o pericolose con cui tiravano avanti le amministrazioni coloniali. —