Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  settembre 06 Lunedì calendario

L’ultima giornata di Cernobbio

CERNOBBIO Certe giornate si capiscono dalla coda e allora vale la pena di notare quand’è che la platea di Cernobbio, stanca e affamata, si scalda per la prima volta. Siamo alla mattinata di chiusura del Forum Ambrosetti, dedicata a una lunga sfilata di leader di partito e ministri che raccontano l’«agenda per l’Italia». A nessuno di loro, dalle otto alle 13, è stato negato un modesto applauso. A nessuno è stato riservato qualcosa di più, nella sala popolata da imprenditori, amministratori delegati e «country manager» dei colossi globali: educati e misurati applausi per tutti. È così per Enrico Letta e Giuseppe Conte, è così per Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Fino a quando il microfono lo prende Renato Brunetta.
Il ministro della Pubblica amministrazione, senza cravatta quasi si senta a casa propria, a Villa d’Este racconta un Paese che per lui è finalmente «in una congiuntura astrale irripetibile». Ma non è l’allineamento delle stelle che anima la platea, è il soufflé. «Lo sapete fare il soufflé?», azzarda Brunetta. «Si mette in forno, si lascia lievitare, quello profuma e viene voglia di aprire per dare un’occhiata. Ma se apri, implode. Ecco, il governo è così: non aprite quella porta».
E giù risate in sala. Non è chiaro se Brunetta volesse dire, per mezzo del soufflé, che l’esperimento dei tecnici di alto profilo per lui va lasciato continuare. Non solo fino alle elezioni del 2023, ma oltre. È chiarissimo invece che buona parte della platea applaude perché lo capisce così. Sono tre giorni che a Cernobbio le chiacchiere da pausa caffè tornano su quella domanda: cosa deve succedere perché Mario Draghi continui a guidare la ripresa post-pandemica il più a lungo possibile, nei prossimi anni? Nessuno ha la risposta. E allora l’unico modo per orientarsi è provare a leggere i tic e i gesti di leader e ministri. Prendete i saluti: Enrico Letta arriva sul palco e scambia con gli astanti un colpetto a pugno chiuso, profilatticamente impeccabile. La sua prima confessione appena sale sul palco di Villa d’Este da leader del Pd, dopo averlo fatto decine di volte da professore della parigina SciencePo: «Da quando sono arrivato stamani già in tredici mi hanno chiesto: ma chi te lo ha fatto fare?». Sia Salvini che Giorgia Meloni invece offrono una stretta di mano all’antica, vigorosa, franca e politicamente scorrettissima, con l’aria di dire: «Provati un po’ a rifiutare la mia mano tesa».
Il Tesoro
Il ministro risponde a Meloni: grazie al Recovery aumentano i consumi delle famiglie
Le parole del resto sono una continuazione del linguaggio del corpo. Giuseppe Conte compare distante, in videoconferenza, da qualche parte davanti a una libreria (più tardi andrà alla festa del «Fatto quotidiano»). Sa cosa lo aspetta, l’ex premier, e infatti monta una difesa preventiva del reddito di cittadinanza («non possiamo tornare indietro, cambiamolo per renderlo più efficace»). E infatti le bordate di Salvini e Meloni arrivano. Lei, la leader di Fratelli d’Italia, apre un quadernino pieno di fittissimi e ordinatissimi appunti scritti mezzi in nero e mezzi in rosso in una calligrafia piccola e tonda, da cui tira fuori l’analogia del reddito come «metadone di Stato». Lui, il segretario della Lega, accende una prima miccia sotto la Legge di bilancio in arrivo. «È vero, ho sbagliato ad accettare quella misura: presenteremo un emendamento in parlamento che cancella il reddito di cittadinanza per destinare quei 12 miliardi alle imprese, visto che la maggioranza in parlamento la pensa come noi». Letta nelle repliche non spenderà una sola parola sul tema, lasciando Conte a sbrigarsela da solo. E chissà cosa significa che invece Andrea Orlando, il ministro (piddino) del Lavoro, più tardi invece darà man forte all’ex premier con puntiglio («Non vorrei che in questo Paese si aprisse una campagna contro i poveri»).
Ma il vero duello sottotraccia riguarda l’uomo che, seduto in prima fila, non si distrae un attimo: il ministro dell’Economia Daniele Franco. Il leader leghista mette le mani avanti sulle pensioni. Ora che sta scadendo il triennio di «quota 100», dice, farà le barricate contro chi vuole tornare alla riforma Fornero. Soprattutto chiede che «quota 100» venga prorogata un altro anno, cioè fino alle elezioni («costa solo 400 milioni»). Franco ascolta e non muove un muscolo del viso. Aggrotta invece le sopracciglia, un po’ confuso, quando Giorgia Meloni azzarda: «Nel nostro piano nazionale di Recovery c’è qualcosa che non va, infatti l’export e i consumi interni scendono».
È abbastanza. Forse per la prima volta in vita sua, senza averne l’aria, Franco risponde colpo su colpo a dei politici nel suo modo tutto da decrittare. Lo fa più tardi, quando quelli sono partiti da un pezzo. A Meloni, senza citarla, ricorda che i consumi in realtà salgono a fine periodo rispetto allo scenario senza Recovery (più 1,9%). A Salvini, anche lui non nominato, dice che una chiave della crescita in un Paese dove la popolazione invecchia e diminuisce è non ridurre l’offerta di lavoro: l’opposto di quota 100.
Anche Meloni martella sul fatto che l’Italia è in emergenza demografica, eppure l’Europa non fa nulla. Letta si spazientisce: «Giorgia, ci sono i fondi per i nidi d’infanzia nel Recovery e voi avete votato contro». «Ci siamo astenuti», fa lei, ma nessuno sente perché il microfono è spento. Del resto il tempo è finito, bisogna chiudere perché ora tocca alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Salvini, che con lei si scontra ogni giorno sui migranti, azzarda la battuta: «Bisogna andare? Io mi fermavo volentieri, è un confronto stimolante». Meloni ride e rincara: «Anche lei sarebbe contentissima». In realtà Lamorgese si guarda bene dal salire sul palco finché ci sono quei due, poi arriva circospetta, dietro una maschera nera, mentre i politici escono dalla sala. Accompagnati da applausi educati, e nulla più.