La Lettura, 5 settembre 2021
Intervista a Peter Godfrey-Smith - su "Metazoa" (Adelphi)
Dopo aver descritto in un libro di successo, Altre menti (Adelphi), l’intelligenza e la sensibilità dei polpi, il filosofo della biologia ed esperto subacqueo australiano Peter Godfrey-Smith ha esteso il quadro e ha coinvolto altri amici in fondo al mare. In Metazoa (Adelphi), che è l’etichetta tassonomica del regno animale, si è fatto aiutare da due illustratori — Rebecca Gelernter e il disegnatore torinese grande amante del mare, Alberto Rava — per viaggiare sui rami dell’albero della vita e mostrare come l’evoluzione della mente risalga, nei suoi primi stadi abbozzati, a coralli e meduse. Gli abbiamo posto alcune domande su questa ipotesi darwiniana.
Quando possiamo trovare i primi segni di esperienze soggettive e di autocoscienza nell’albero evolutivo degli animali? In che modo l’evoluzione ci permette di colmare il divario tra il dominio fisico e quello mentale?
«Sono ritornato su questa domanda difficile per tutta la stesura del libro. Da una prospettiva evolutiva, dobbiamo aspettarci che l’origine dell’esperienza di sé sia una questione graduale, con molte fasi, ciascuna delle quali non rappresenta un chiaro “sì” o “no”, ma un’espressione parziale. Tendo a pensare che gli artropodi e i molluschi più semplici siano i primi esempi di questa trasformazione, ma forse dovrei essere più inclusivo. Metazoa parla di animali come coralli e anemoni, che hanno un sistema nervoso ma non un cervello, e sensi molto limitati. Sono loro i primi barlumi di una mente animale, che poi si ramifica in crostacei, cefalopodi, pesci, e quindi nei vertebrati terrestri? E che dire delle piante? Insomma, non ho una risposta, questa è una domanda a cui penso costantemente».
Va anche detto che cefalopodi e pesci di oggi non sono nostri antenati primordiali, ma cugini che hanno avuto molto tempo fa un antenato in comune con noi mammiferi e poi hanno intrapreso una loro avventura indipendente nel grande albero della vita.
«Esatto, ci sono tante strade nell’evoluzione. Il nostro percorso ci sembra particolarmente interessante solo perché noi siamo ciò che, per ora, si trova al termine di esso!».
Lei si definisce un «monista materialista», ma aggiunge che il materialismo non è una visione ristretta come può sembrare, perché c’è ancora molto da scoprire sulla natura: in che senso?
«La parola “materialista” suggerisce il primato della materia, della sostanza fisica. Ma all’interno di una visione materialista bisogna considerare anche il ruolo dell’energia e le molte forme che essa assume. Sono giunto a pensare che i sistemi nervosi siano molto speciali da questo punto di vista: sono dispositivi che organizzano l’energia in modi insoliti. Sono assai più diversi dai computer di quanto spesso suppongano i filosofi. Penso che probabilmente ci attendano delle importanti sorprese, negli studi dei rapporti tra energia e attività vivente».
Quindi lei è un emergentista, cioè pensa che la coscienza sia una proprietà di livello superiore che emerge da processi biologici che si verificano a livelli inferiori?
«Io non uso il termine “emergenza” perché penso che sia inutile. Alcuni però descrivono il mio approccio in questo modo e non mi oppongo più di tanto. Il problema che ho con “emergenza” è il modo in cui suggerisce che vi siano due tipi di proprietà di livello superiore: quelle riducibili e quelle emergenti. Io penso invece che le proprietà di livello superiore di sistemi come il cervello abbiano molte relazioni diverse con i processi di livello inferiore che le compongono. Inoltre, la coscienza non è un prodotto dei processi cerebrali, non è qualcosa che emerge da essi: piuttosto, alcune attività cerebrali sono consce. I processi cerebrali non sono causa di pensieri ed esperienze: sono pensieri ed esperienze».
Lei nel libro descrive i vari gradini verso la coscienza: azioni, sistema nervoso, vista, emozioni, socialità, personalità individuali e così via. Però raccontare l’evoluzione dal passato al presente in questo modo la fa assomigliare troppo a un progresso inevitabile verso forme sempre più complesse.
«Sono d’accordo: non ci sono progressi necessari nell’evoluzione, verso la complessità o qualche altro obiettivo. Dato che l’evoluzione deve iniziare con sistemi più semplici, però, ci sarà la tendenza che quelli più complessi facciano parte di ciò che verrà dopo. Ma altre cose che vengono dopo possono essere semplici. I nostri cervelli sono meravigliosamente complessi e possiamo usarli per porre queste domande e chiederci come funziona l’universo. Quindi è naturale cercare di capire come gli animali molto complessi che noi siamo siano nati da forme più semplici. Questo è un percorso che l’evoluzione ha preso. Ma ci sono molti altri percorsi nell’albero della vita, e nessuno è guidato da un obiettivo generale».
Lei sostiene che la soggettività e la consapevolezza abbiano avuto funzioni adattative in passato: muoversi meglio nel mondo, interagire con gli altri. Ho un problema solo in un caso: non capisco quale possa essere il vantaggio di essere consapevoli della propria mortalità. Forse è un effetto collaterale?
«Domanda molto interessante. Nel terzo libro della serie (l’ultimo) parlerò in dettaglio della morte: del suo ruolo nell’evoluzione e in una vita umana ricca di significato. Per rispondere, intanto: sì, penso che in termini adattativi la nostra consapevolezza della mortalità sia probabilmente un effetto collaterale».
Un effetto collaterale pregno di conseguenze. Le descrizioni nel libro sono impregnate di metafore antropomorfe, il che entro certo limiti è inaggirabile. Sembra che gamberi e ricciole coda gialla abbiano intenzioni e progetti. Molti scienziati e filosofi pensano che sia un rischio estendere categorie umane come l’autocoscienza agli animali, che inevitabilmente vediamo dal nostro punto di vista. Lei invece non sembra molto preoccupato di questo.
«Penso che vada bene usare metafore antropomorfe purché si sappia che cosa si sta facendo, purché si sia consapevoli dei problemi e del fascino di questo tipo di pensiero. In un contesto scientifico, bisogna sapersi allontanare dall’antropomorfismo. In altri contesti, secondo me, non è un problema».
Che cosa pensa della proposta di estendere la categoria dei «diritti» non solo agli animali senzienti, che già è un confine sfocato, ma anche alle piante e a tutti gli altri esseri viventi?
«Anche di questo parlerò nel terzo capitolo della mia trilogia. Tendo a non basare molto il mio pensiero sui “diritti”. Vedo i diritti come costrutti politici — ovviamente di grande valore — ma non come qualcosa che ci viene consegnato dalla Natura o dalle Leggi della Ragione, come pensava Immanuel Kant. Ritengo che anche senza il ricorso a queste categorie abbiamo buone motivazioni per considerare gli interessi e il benessere di molti più animali di quelli normalmente pensati in questo modo. Questo è un primo passo: espandere la considerazione verso gli altri. Ritengo che gli animali, al contrario delle piante, abbiano in tal senso uno status speciale, ma questa domanda interagisce anche con la questione di come possiamo comprendere le forme più semplici di esperienza soggettiva».
La prospettiva filosofica ed evoluzionistica è stata piuttosto carente nel dibattito pubblico sulla pandemia. Quale contributo può dare la nostra disciplina, la filosofia della biologia, per capire che cosa è successo con Sars-CoV-2?
«Penso che la pandemia stimolerà una grande quantità di lavoro filosofico in futuro, in molti settori: dobbiamo pensare alle relazioni umane con i microbi; all’uso dei modelli nelle decisioni politiche; alla relazione fra tutela della salute pubblica e libertà fondamentali. C’è un sacco di lavoro qui per la filosofia. La prospettiva evolutiva è stata importante nelle discussioni ben informate sulla pandemia. In genere si pensava che nuove varianti del virus sarebbero sorte da processi evolutivi e avrebbero potuto migliorare o peggiorare la situazione, a seconda del percorso seguito dall’evoluzione virale. È sempre possibile che alcune nuove varianti sfuggano, almeno in parte, agli attuali vaccini. Riconoscere questo significa applicare una mentalità evolutiva».
Il libro è dedicato a coloro che hanno perso la vita negli incendi del 2019 e 2020 in Australia e a chi si è prodigato per domarli: quanto è stato importante quello shock per rafforzare la consapevolezza generale sui rischi del riscaldamento climatico nel vostro Paese?
«Quegli incendi hanno avuto un enorme effetto sul pensiero delle persone. Hanno davvero causato un cambiamento, che penso sarà permanente o almeno durerà a lungo. L’Australia continua a essere un Paese irrilevante nella lotta ai cambiamenti climatici. Dovremmo essere tra i leader di quella lotta e invece siamo una grossa parte del problema. La politica locale sta causando ogni sorta di problemi in questo settore. Ma penso che la nave stia finalmente virando. Una ragione di ciò è il fatto che un gran numero di animali endemici ha perso la vita negli incendi e le immagini della loro sofferenza erano molto potenti. Il mio libro è dedicato agli umani e a tutti gli altri animali che hanno perso la vita».
In Italia molti filosofi ignorano la scienza, o la trattano come una forma di pensiero minore. Lei sostiene invece che per affrontare problemi filosofici come la natura della coscienza bisogna aggiungere nuovi dati, scoprire cose nuove, saperne di più. La scienza trasforma i problemi, li sposta. Che rapporto vede nel futuro tra scienza e filosofia?
«Risponderò con due tesi apparentemente contrapposte. In primo luogo, penso che per fare progressi in filosofia sia generalmente importante prestare molta attenzione a ciò che sta accadendo nella scienza e lavorare in larga misura all’interno di un quadro scientifico. Questo è un tipo di “naturalismo” in filosofia».
Un naturalismo che, in «Metazoa», si tramuta in un potente messaggio di diversità: dai polpi agli squali balena, agli esseri umani, là fuori ci sono innumerevoli forme di esperienza, del mondo e di sé stessi; tanti modi di stare al mondo e di interpretarlo. Noi siamo uno fra tanti.
«Esatto, però penso anche che una parte di ciò che è grande nella tradizione filosofica sia la sua imprevedibilità. Non si sa mai da dove potrebbe venire la prossima idea importante. Quando alcuni filosofi esigono che la filosofia sia sempre e solo scientifica, allora resisto e ne rivendico l’indipendenza».