Tuttolibri, 4 settembre 2021
Slavoj Žižek su "Hegel e il cervello postumano" (Ponte alle Grazie)
L’apocalisse («rivelazione», in greco antico) è un disvelamento, o rivelazione di conoscenza; nel linguaggio religioso, ciò che l’apocalisse rivela è qualcosa di nascosto, la verità ultima cui siamo ciechi nella nostra vita di tutti i giorni. L’Apocalisse di Giovanni la descrive come la distruzione completa e finale del mondo; analogamente, ci riferiamo oggi di solito a qualsiasi evento catastrofico su larga scala - o catena di eventi dannosi per l’umanità o la natura -, come «apocalittico». Benché sia facile immaginare l’apocalisse-disvelamento senza l’apocalisse-catastrofe (per dire, una rivelazione religiosa) e l’apocalisse-catastrofe senza l’apocalisse-disvelamento (un terremoto che distrugge un intero continente), tra le due dimensioni c’è un legame interno: quando affrontiamo (o pensiamo di affrontare) una verità superiore e finora nascosta, questa è talmente diversa dalle nostre opinioni comuni da mandare il nostro mondo in frantumi e viceversa, ogni evento catastrofico - quand’anche puramente naturale - rivela qualcosa di ignorato nella nostra esistenza normale, ci mette faccia a faccia con una verità rimossa. Non siamo pronti a confrontarci con la verità ultima nella nostra consueta quotidianità e preferiamo soffermarci sulle illusioni; sicché, quando siamo costretti ad affrontare la verità, la sperimentiamo come «apocalittica», come la fine del nostro mondo. Nel suo saggio Apocalisse senza regno, Günther Anders ha introdotto il concetto di nuda apocalisse: «l’apocalisse che consiste nella semplice Caduta, che non rappresenta l’aprirsi di un nuovo positivo stato di cose (del «regno»). L’idea di Anders era che una catastrofe nucleare sarebbe stata proprio una tale, nuda apocalisse: non ne sarebbe emerso un nuovo regno, ma solo l’annientamento di noi stessi e del nostro mondo. Qui la domanda da porsi è: che tipo di apocalisse si annuncia dalla prospettiva della cosiddetta «post-umanità» aperta da un collegamento diretto tra il nostro cervello e una macchina digitale, ciò che viene comunemente chiamato «Neuralink» e che gli oscurantisti New Age chiamano Singolarità, lo spazio globale divino della consapevolezza condivisa?
Si può tranquillamente supporre che ogni sorta di servizi segreti già ci stiano alacremente lavorando; ne conosciamo soltanto la pubblica facciata, le notizie sensazionali che escono sui nostri media. Il progetto più noto in questo senso è quello di Neuralink, una società americana di neurotecnologia fondata da Elon Musk e altri otto soci, dedicata allo sviluppo d’interfacce cervello-computer impiantabili (implantable brain-computer interfaces, o BCI), dette anche interfaccia di controllo neurale (neural-control interface, NCI), interfaccia di mente-macchina (mind-machine-interface, MMI) o interfaccia neurale diretta (direct-neural-interface DNI); tutti questi termini indicano la stessa idea di un percorso di comunicazione diretta, prima tra un cervello potenziato, o connesso, e un dispositivo esterno e successivamente tra i cervelli stessi.
Si dovrebbe resistere alla tentazione di proclamare un’illusione la prospettiva di un cervello connesso, qualcosa da cui siamo ancora lontani e che non può essere realmente attualizzato: tale visione è essa stessa una fuga dalla minaccia, dal fatto che qualcosa di Nuovo e inedito sta effettivamente emergendo. Già nel maggio 2002, era uscita la notizia che scienziati della New York University avevano connesso il chip di un computer in grado di ricevere segnali direttamente al cervello di un ratto, così da rendere possibile il controllo del ratto (determinare cioè la direzione in cui avrebbe corso) per mezzo di un meccanismo sterzante (nello stesso modo in cui si pilota una macchinina telecomandata). È stata la prima volta che la «volontà» di un agente animale vivente, le sue decisioni «spontanee» sui movimenti che avrebbe fatto, erano rilevate da una macchina esterna. Naturalmente, la grande domanda filosofica qui è: come ha «esperito» lo sventurato topo, il suo movimento effettivamente deciso dall’esterno? Ha continuato a «esperirlo» come qualcosa di spontaneo (era cioè totalmente inconsapevole che i suoi movimenti fossero guidati?), oppure era consapevole che c’era «qualcosa che non andava», che un’altra forza esterna ne stava decidendo i movimenti? È più fondamentale ancora applicare lo stesso ragionamento a un identico esperimento condotto con gli umani (che, questioni etiche a parte, non dovrebbe essere molto più complicato, tecnicamente parlando, che nel caso del ratto). Nel caso del ratto, si può sostenere che non gli si dovrebbe applicare la categoria umana di «esperienza», mentre nel caso di un essere umano è una domanda che bisognerebbe porsi. Quindi, ancora una volta, un essere umano guidato continuerà a «esperire» i suoi movimenti come qualcosa di spontaneo? Rimarrà del tutto inconsapevole che i suoi movimenti sono guidati, oppure diventerà consapevole del fatto che «qualcosa non va», che un’altra forza esterna ne sta decidendo i movimenti? E questo «potere esterno», come apparirà precisamente: come qualcosa «dentro di me», un inarrestabile impulso interno, o come semplice coercizione esterna? Se il soggetto rimarrà totalmente inconsapevole del fatto che il suo comportamento spontaneo è guidato dall’esterno, si può davvero continuare a fingere che ciò non abbia conseguenze per il nostro concetto di libero arbitrio? La maggior parte di quelli che riflettono su Neuralink si soffermano sull’individualità della mia esperienza: quando sarò immerso nella Singolarità, la perderò oppure no? Ma c’è la possibilità opposta: e se mantenessi la mia individualità nell’esperienza senza nemmeno sapere che sono controllato e guidato?
Ancora una volta, l’impatto devastante dell’esperienza collettivamente condivisa non va sottovalutato: quand’anche fosse realizzata in modo assai più modesto rispetto alle odierne visioni grandiose di Singolarità, con essa cambierà tutto. È per questo che l’idea di Singolarità merita di essere presa in considerazione. In barba al sovraccarico di oscurantismo new age frammisto di tecno-ingenuità, dovremmo parafrasare Groucho Marx e dire: «pretendono di presentare qualcosa di veramente nuovo, e si comportano come se presentassero qualcosa veramente nuovo, ma non lasciatevi ingannare: indicano la nascita di qualcosa di veramente nuovo!».La nostra domanda qui è: quale sarà il nostro ingresso nella Singolarità? L’ingresso in un nuovo regno superiore (post-umano), o semplicemente la scomparsa dell’umanità come la conosciamo, o in un certo senso (ma in che senso?) entrambi allo stesso tempo? È chiaro che l’eventuale avvento della Singolarità sarà apocalittico nel significato complesso del termine: implicherà l’incontro con una verità nascosta nella nostra ordinaria esistenza umana, cioè l’ingresso in una nuova dimensione post-umana, che non può che essere vissuta come catastrofica, come la fine del nostro mondo. Ma saremo ancora qui per sperimentare la nostra immersione nella Singolarità nel senso umano del termine?
In questa fase iniziale di sviluppo, possiamo solo ipotizzare come sarà organizzata l’immersione nella Singolarità come spazio di pensieri ed esperienze condivisi: in che modo il soggetto e/o la macchina decideranno di connettersi (o disconnettersi)? Come verrà decisa l’ampiezza della connessione? (Quanta della conoscenza della macchina mi sarà accessibile? In che modo e con chi condividerò le esperienze?). Andrà soltanto tenuto presente che tutte queste sono anche domande della massima importanza politica. La Singolarità promette una nuova esperienza soggettiva d’immersione in uno spazio di mente collettiva; ma - aspetto che viene regolarmente trascurato - essa implicherà anche una vasta rete di macchine integrate nelle nostre relazioni sociali di dominio. Saremo semplicemente controllati dalle macchine? Una parte dell’umanità manterrà con esse un contatto privilegiato? Per dirla in termini brutalmente semplificati: in che modo l’avanzamento (finale) della Singolarità influenzerà il capitalismo e le forme di potere sociale?
Quando la minaccia rappresentata dalla digitalizzazione delle nostre vite viene discussa nei nostri media, l’attenzione è solitamente rivolta alla nuova fase del capitalismo che Shoshana Zuboff denomina «capitalismo della sorveglianza»: «Conoscenza, autorità e potere sono responsabilità del capitale di sorveglianza, per il quale siamo semplicemente “risorse naturali umane”. Ora siamo i popoli indigeni le cui pretese di autodeterminazione sono svanite dalle mappe della nostra stessa esperienza». Noi, gli osservati, non siamo solo materiale, siamo anche sfruttati, coinvolti in uno scambio diseguale, ragion per cui il termine «plusvalore comportamentale» (interpretando il ruolo di plusvalore) è qui pienamente giustificato: navigando, acquistando, guardando la TV, ecc., riceviamo ciò che vogliamo, ma diamo di più: ci mettiamo a nudo, rendiamo i dettagli della nostra vita e delle sue abitudini visibili al grande Altro digitale. Il paradosso è, ovviamente, che viviamo questo scambio diseguale, l’attività che effettivamente ci schiavizza, come il nostro più alto esercizio di libertà: cosa c’è di più libero della libera navigazione sul web? Con il semplice esercizio di questa nostra libertà, produciamo il «plusvalore» di cui il grande Altro digitale che raccoglie dati si appropria.
Benché l’ascesa del «capitalismo di sorveglianza» abbia conseguenze di vasta portata, non è ancora il vero punto di svolta: c’è un potenziale ancora maggiore per delle nuove forme di dominio prospettate dall’interfaccia diretta cervello-macchina. Adesso possiamo capire perché la prospettiva della Singolarità è il principale, odierno candidato come fine della storia: dopo che avrà avuto luogo, il resto non sarà storia, almeno non quella che abbiamo conosciuto e sperimentato.
La distanza tra la nostra vita interiore, la linea dei nostri pensieri e la realtà esterna è la base della percezione di noi stessi come liberi: siamo liberi nei nostri pensieri proprio nella misura in cui essi sono a distanza dalla realtà, così da poterci giocare, fare degli esperimenti mentali, metterci a sognare senza conseguenze dirette nella realtà; lì nessuno può controllarci. Una volta che la nostra vita interiore è direttamente collegata alla realtà cosicché che i nostri pensieri abbiano conseguenze dirette nella realtà (o possano essere regolati direttamente da una macchina che di questa fa parte) e in questo senso non sono più «nostri», entriamo di fatto in uno stato postumano. Secondo Elon Musk, se non ci uniremo alla super-mente della nuova Intelligenza Artificiale, noi - gli umani - diventeremo presto come i gorilla in uno zoo: e se questa prospettiva di rimanere-all’esterno avesse in qualche modo i suoi vantaggi? Non nel senso che godremo di una nuova, stupida, rozza esistenza nel nostro zoo, con la benevola IA che si prende cura di noi, ma in un senso molto più drastico: se ipotizzassimo il futuro spazio della Singolarità non come un singolo onnipotente spazio che controlla tutto, bensì come una contraddittoria mescolanza, la nostra (parziale) esclusione da esso non fornirebbe un minimo di libertà di giocare con i diversi aspetti della sfaccettata Singolarità?
In una barzelletta su Auschwitz che circola tra gli ebrei, un gruppo di loro morti in un campo di concentramento si siede su una panchina in Paradiso e parla della propria sofferenza, prendendosene gioco. Uno di loro dice: «David, ti ricordi di come sei scivolato nel percorso alla camera a gas e sei morto prima ancora che il gas ti avvolgesse?», ecc. Passeggiando in Paradiso, passa dio stesso, li ascolta e si lamenta di non capire la storiella; gli si avvicina uno degli ebrei, gli mette una mano sulla spalla e lo conforta: «Non essere triste. Non c’eri, credo bene che non puoi capirla!». La bellezza di questa risposta sta nel suo riferirsi alla nota affermazione che dio è morto ad Auschwitz, che lì non c’era: «nessun dio ad Auschwitz» non dà per implicito che dio non possa capire l’orrore di ciò che vi è accaduto (dio può farlo facilmente, è il suo lavoro), ma che non riesca a capire l’umorismo generato dall’esperienza di Auschwitz. Ciò che dio non capisce (e non può) capire è l’oscena sovranità dello spirito umano che reagisce con una risata proprio allo spazio in cui lui (dio) è assente. Si sostituisca dio con Singolarità ed è questa, forse, la nostra posizione nella Singolarità.