Il Messaggero, 5 settembre 2021
Chi è Claudio Locatelli, reporter in Afghanistan
Buio, colpi d’arma da fuoco. Pochi secondi in cui non si sentono altro che sventagliate di mitra e spari. La notte di Kabul. Poi la sua voce. «Non so se riuscite a vedere, a sentirmi, ho preso gli strumenti per registrare dall’alto così io posso stare dietro muri e farvi vedere quello che accade, ditemi se sentite». Accanto ai puntini rossi degli spari per i festeggiamenti che hanno fatto parecchi morti nella capitale afghana, salgono i cuoricini dei mi piace e i commenti degli aficionados che sempre più numerosi, fino a 3 milioni di visualizzazioni, seguono sui social le dirette da Kabul del giornalista combattente Claudio Locatelli, 33 anni, bergamasco-padovano, inviato indipendente che raccoglie fondi tra i follower per finanziarsi le missioni e, dal 31 agosto, arrivato via terra a Kabul mentre l’ultimo aereo americano si portava via l’ultimo soldato, il general maggiore Donahue, mostra la realtà che noi non vediamo. E conclude le dirette con la frase che è tutto un programma: «Claudio Locatelli dal centro della storia». O Storia, con la S maiuscola: evento da testimoniare, e storia di chi la vive. «L’informazione per me è farvi arrivare quello che al salotto di casa non arriva, farvi capire come vive il resto del mondo». La notte afghana e la nostra. «Claudio Locatelli da Kabul, a domani, buonanotte Italia».
Così la passeggiata-selfie lungo il muro dell’aeroporto, luogo della strage. Lui parla, ma dietro vedi i talebani accoccolati sopra le camionette Usa. E sprazzi di normalità che sono corredo surreale di ogni vero racconto di guerra, come quei bambini, vedete?, che giocano a pallone dove si sono conficcate le schegge. «La chiave dell’impegno per cui sono qua è svegliare la gente dal divano e fargli capire che, se il telecomando si rompe, dall’altra parte del mondo però stanno sparando a un bambino in strada. E mentre ti lamenti di dover avere il Green pass, per evitare una pandemia e pensi che sia il problema dei problemi, magari hanno arrestato e picchiato una donna solo perché esponeva dei cartelli».
Da bambini la paura più grande è il buio. «Poi cresci e scopri che ci sono tante altre cose che fanno più paura. Ecco io vorrei insegnare a relativizzare, offrire un contesto più ampio, perché la gente soffra meno la paura del buio».
IL CURRICULUM
Ha una storia, Locatelli. È un coach sportivo, attivo nella solidarietà. A Padova, durante il lockdown, ha coordinato un centinaio di volontari per consegnare viveri, in Bosnia ha lanciato una raccolta di indumenti con 12 camion e 5 convogli. Lo hanno definito giornalista combattente perché in Siria, dice, «ero un guerrigliero nel battaglione internazionale dell’Unità di protezione popolare curda Ypg e con i miei compagni ho contribuito a riprendere Tapqa e Rakka all’Isis. Fu una scelta di vita». Poi cita un caro amico caduto in battaglia: «Nel momento in cui scopri per cosa vale la pena morire, è lì che cominci a vivere. E fu lì che miracolosamente sono tornato vivo». La motivazione in due tatuaggi. Uno per i morti di Parigi, l’altro per i morti di Londra. Il suo mito: la forza delle combattenti yazide. Nel carnet pure un arresto a Minsk, Bielorussia, nei moti di piazza contro Lukashenko: tre giorni di prigione a digiuno. E il racconto della guerra del Nagorno-Karabakh e del ritorno dei russi a Stepanakert, nell’Artsakh. «Ho potuto confermare che gli azeri erano arrivati quasi alle porte della città via terra». Il centro della Storia non sempre è al centro dell’attenzione. «Io cerco di rendere visibile quello che non lo è».
I TALEBANI
A Kabul, Claudio può sfatare i luoghi comuni. «Troppo spesso guardiamo il mondo attraverso l’immaginario dei film e così perdiamo la profondità e le sfumature. Qui, per esempio, non c’è guerra ma tensione, e non è vero che tutte le donne all’improvviso girano coperte». I talebani sono gentili verso i giornalisti. «C’è un ordine dall’alto, non so quanto in buona fede». E una routine di guerra. «I ragazzini rivedono sui cellulari video in cui si spara, chi con gli occhi intrisi di lacrime perché li ha vissuti, e chi ridendo perché li considera naturali e basta». Il pericolo in agguato è un assalto inatteso, un cambio di atteggiamento verso i media Claudio indossa il camice tradizionale, ma anche una kefiah marroncina: «Devono capire che sono un internazionale e un giornalista, e non devono sentirsi provocati in senso militare. Più lavoro, più mi espongo a rischi e più divento scomodo, ma nelle zone difficili medici, giornalisti, umanitari e diplomatici mettono nel conto di rischiare per fare ciò che serve nel modo in cui serve, quando serve». Accendere la luce nel buio della notte.