Tuttolibri, 4 settembre 2021
Intervista a Fouad Laroui
Un giovane ministro marocchino viene inviato a Bruxelles a negoziare l’acquisto di una grossa fornitura di grano europeo. Ma nella camera d’albergo gli rubano i pantaloni. La mattina dopo, molto presto, ha appuntamento con i funzionari della Ue. Trova da indossare soltanto dei pantaloni da golf, sembra un clown. E la sera prima, alcuni di quei seriosi personaggi l’avevano già all’hotel: l’avevano preso per un cameriere, in mezzo a un ricevimento… Inizia così la raccolta di novelle del marocchino Fouad Laroui, che prende il titolo da questo primo racconto, Lo strano caso dei pantaloni di Dassoukine, in una girandola di fraintendimenti e di malinconica ironia. «È il fil rouge della raccolta, ma anche di tutti i miei romanzi e saggi – sottolinea lo scrittore, al telefono da El Jadida, dove ha vissuto da piccolo -. Cerco di eliminare i malintesi tra la cultura araba e marocchina e quella europea. Anche perché sono nato in questo Paese, ma ho sempre studiato in scuole francesi e da 25 anni vivo in Europa. La parola d’ordine della mia opera è: come trovare la giusta distanza tra la nostra cultura, le altre e la mondializzazione. Per me è pure una sfida di vita».
Fouad ha oscillato tra mondi diversi in ogni senso: studi di matematica dopo la maturità al liceo francese di Casablanca, poi la laurea in ingegneria in una delle grandes écoles a Parigi, in seguito un dottorato di economia e una lunga carriera di docente, alla fine di letteratura ad Amsterdam. Oggi, a 62 anni, si divide tra la capitale francese e il Marocco. E scrive, scrive, scrive.
Torniamo a Dassoukine, il nostro ministro in trasferta a Bruxelles…
«La storia è burlesca e comica. Ma sullo sfondo c’è qualcosa di molto più serio. Basta guardare ai pregiudizi di questi alti funzionari. Hanno di fronte qualcuno che nella sua testa è europeo come loro, hanno tutti riferimenti letterari comuni. Ma si fermano all’apparenza: quello che vedono è un marocchino che, per di più, per circostanze fortuite, si presenta vestito come un clown. Gli stereotipi esistono in tutte le culture, ma con noi arabi possono essere pericolosi».
Per quale ragione?
«Perché s’inseriscono in quel retropensiero sviluppato da Bernard Lewis e Samuel Huntington, quando parlavano di scontro delle civiltà. Avere dei pregiudizi tra gli europei non è grave, ma quando riguardano il mondo arabo e islamico, è un’altra cosa».
Comunque, in un altro racconto ("Quel che non è stato detto a Bruxelles"), non ci sono arabi. Ma una coppia composta da un olandese (che ci tiene a essere definito neerlandese) e una francese…
«I due non riescono a capirsi. Ho vissuto a lungo nei Paesi Bassi. Lì prevale sempre una morale calvinista, anche quando una persona non è religiosa. Lo si è visto pure nel loro atteggiamento nei confronti dei popoli del Sud, italiani compresi, dopo la crisi finanziaria del 2007-2008 o di recente con il recovery plan. Hanno una visione basata su notevoli stereotipi, del tipo che al Sud si spende troppo e non si sanno gestire i soldi. Nel racconto entrambi i protagonisti avevano deciso di lasciare l’altro, di rompere. Ma basta un piccolo incidente in un museo di Bruxelles perché si rendano conto che fanno parte di una stessa specie umana. Al di là delle piccole differenze in superficie».
Lei tratta di questioni gravi ma non rinuncia mai all’umorismo…
«Mia madre, che nella vita ne aveva viste di tutti i colori, lo ripeteva sempre: troppa infelicità fa ridere. L’unico modo per sopravvivere è stabilire una distanza tra quello che succede e noi stessi».
In uno dei racconti ("L’invenzione del nuoto a secco") avviene qualcosa di molto strano…
«Da Rabat prevedono una prova di nuoto alla maturità. Ma in una città del Marocco profondo non ci sono piscine. E così il preside del liceo organizza l’esame nel recinto di sabbia della scuola: i ragazzi nuoteranno lì, nella rena. Ho voluto mostrare come la modernità obblighi ad adattarsi chi oggi non ne è produttore (i Paesi alla periferia dell’Europa, ad esempio). E talvolta trovano soluzioni ingegnose».
Com’è riuscito a frequentare una scuola francese in Marocco?
«Oggi per qualcuno come me (vengo da una famiglia modesta), sarebbe impossibile. Sono troppo care. Ma quando ero piccolo, erano gratuite, come tutto l’insegnamento pubblico in Francia. Da poco era finito il protettorato di Parigi sul nostro Paese. Papà era un postino e una persona molto insistente. Quando avevo tre anni, mi prese per mano e mi portò in una scuola francese. Lo fece anche con i miei due fratelli e mia sorella. Si piantava nell’ufficio del direttore per convincerlo a prenderci a studiare lì. Ha funzionato ogni volta».
Suo padre è scomparso quando lei aveva dieci anni. L’ha segnato questo dramma?
«Sì. Stavo per trasferirmi a Casablanca, per studiare al liceo francese e vivere lì in collegio. Papà uscì per andare a comprare il giornale, prima di cena, come faceva ogni sera. E non è mai più ritornato. All’epoca, sotto il re Hassan II, scomparvero nel nulla fra le 4 e le 5mila persone. Il clima politico era molto teso. Il problema è che nessuno voleva spiegarmi cosa fosse successo e neppure parlarne. Mia madre fu sopraffatta dalla vicenda e non usciva più di casa. Io mi ritrovai a Casablanca da solo ed ero già un ragazzo chiuso, tanto che tutti credevano fossi autista. Ho scritto un romanzo basato su quell’esperienza, Un anno con i francesi. Vissi uno choc culturale: ebbi perfino la tentazione di essere adottato da una famiglia francese. Poi, alla fine di quell’anno e del libro, il ragazzo riesce a trovare tra la sua cultura marocchina e quella francese una buona distanza. Capisce che questa non è nulla ma neppure infinita».
Nei suoi libri si sente una presenza costante dell’autobiografia, il racconto di quello che lei ha sentito dire o visto con i suoi occhi…
«Alcuni mi dicono: hai molta immaginazione. Ma io rispondo che non ne ho bisogno, perché in Marocco basta uscire per strada e hai subito tanto materiale per scrivere. Sono appassionato di letteratura italiana e credo che per Sciascia o Moravia fosse la stessa cosa. Un anno fa ho riletto i Racconti romani di Moravia, che m’ispirano molto. E mi sono detto che per lui era sufficiente uscire per le strade di Roma e della periferia per trovare delle storie».
Adesso esce in Italia anche un suo saggio, “Dio, la matematica e la follia”. Di cosa si tratta?
«Ho studiato tanta matematica nella mia vita, soprattutto da ragazzo. Mi sono chiesto perché, in molti casi, i matematici siano diventati pazzi o quasi. Forse ho trovato una risposta: hanno creduto di scovare Dio nella matematica e questo è stato un grave errore, cercare una traccia divina in quello che studiavano. Tra l’altro proprio la mancata distinzione tra scienza e fisica da una parte e metafisica e religione dall’altra è una delle grandi maledizioni oggi dei Paesi musulmani: si fa intervenire Dio nella scienza ed è un grosso problema, pure alla luce dell’estremismo islamico. È una posizione che l’Europa ha abbandonato a partire dal diciassettesimo secolo con Galileo, ma c’è stata molta resistenza, fino a Darwin e al Novecento. Sul tema sono ritornato con un saggio appena pubblicato in francese (Plaidoyer pour les Arabes. Vers un récit universel, “Appello per gli arabi. Verso una storia universale"), dove vado oltre».
In che senso?
«Spiego come la distinzione fra scienza e metafisica in realtà sia stata fissata per la prima volta da un pensatore arabo del dodicesimo secolo, Averroè, nel Trattato decisivo sulla connessione della religione con la filosofia. Valorizzare quell’eredità per gli arabi rappresenterebbe un ritorno alle origini. Anche con un certo orgoglio, salutare, rispetto alla nostra identità». —