Robinson, 4 settembre 2021
Intervista a Ester Coen
Nel visitare un po’ di tempo fa la bellissima mostra che il Palazzo Altemps di Roma dedicava ad Alberto Savinio, pensavo a quanto fosse importante la sobrietà del curatore che l’allestiva. Quanto, cioè, risultasse essenziale che l’occhio del critico non si sostituisse a quello dell’artista, non ne invadesse gli spazi per smania di protagonismo o magari perché convinto che l’intelligenza sia aggiungere e non sottrarre. E a quel punto ho chiesto all’artefice di quella mostra, cioè a Ester Coen, di parlarmi di lei e della concezione che nel corso degli anni è venuta maturando sull’arte e i suoi protagonisti. Mi è sembrata prima schiva poi, una volta rotto il ghiaccio, disponibile a quel dire essenziale che appartiene alla sua natura.
Sei sempre così scabra quando realizzi una mostra?
«Cosa intendi per scabra?»
Poche informazioni. L’idea di far parlare le opere.
«Sono contraria all’eccesso didascalico, al dover spiegare a tutti i costi presumendo che il pubblico vada istruito. Il pubblico paga un biglietto, entra, gira tra le sale ed è bene che si faccia un’idea propria senza la mediazione del critico o del curatore. È un metodo che ho adottato spesso con i miei studenti. Ognuno crei la propria bibliografia, senza lasciarsi ingabbiare dentro strutture chiuse».
Scelta libertaria, ma funziona?
«Mi stai chiedendo se alla fine il visitatore esce dalla mostra arricchito? Beh, non lo so. Me lo auguro. Se è venuto lì, dopotutto, è perché dietro c’era qualche motivazione. La sovrabbondanza di informazioni lascia poca libertà all’interpretazione, impone il punto di vista dell’istituzione. Se proprio le vuoi, vai su Internet. Credo all’intelligenza dello sguardo e a un pensiero che per quanto incerto si lascia attrarre dall’opera e meno dal pannello accanto. Perché alla fine la gente vedrà questo e meno il quadro».
La mostra che hai dedicato a Savinio ha molte cose alle spalle. A cominciare dal lavoro sulle avanguardie italiane: il futurismo, e in particolare Boccioni e Balla.
Come è stato il tuo itinerario?
«Mi sono laureata con Giulio Carlo Argan, allora sindaco di Roma, con una tesi su Magritte. È stata la premessa di una ricerca sulle avanguardie. Sono passata a occuparmi di de Chirico, trovando un’infinità di materiali inediti. Alla pittura metafisica è poi seguita la lettura del futurismo, la raccolta dei materiali per il catalogo generale di Boccioni, la mostra su di lui al Metropolitan di New York, quella su Sironi e la pittura murale degli anni Trenta, poi alle Scuderie del Quirinale nuovamente sulla metafisica in rapporto a surrealismo ed espressionismo astratto, Matisse, Balla, eccetera».
Prima accennavi ad Argan. Chi sono stati i tuoi punti di riferimento?
«Ho collaborato con Maurizio Fagiolo, Giuliano Briganti, Maurizio Calvesi. Da tutti, nel bene e nel male, ho appreso molto. Certamente con Giuliano si era creata una forte empatia per cui apprendere e lavorare avevano lo stesso valore, la stessa piacevolezza. Altri incontri importanti sono stati con David Sylvester, Bill Lieberman, Jean Clair, Lea Vergine».
Perché hai scelto di occuparti del Novecento?
«Perché è il secolo che mi coinvolge direttamente. Tieni conto che provengo da una famiglia appassionata di archeologia e di arte islamica e forse per reazione ho voluto addentrarmi nel pensiero contemporaneo».
Non sei italiana di nascita.
«Sono nata in Egitto. Fino all’età di quasi sette anni ho vissuto ad Alessandria. È una strana e direi affascinante città. Con il Cairo c’è una distanza abissale. Ricostruita dagli europei dopo i bombardamenti ottocenteschi. Ci ritrovo delle assonanze con Salonicco o Trieste, città di mare».
La tua famiglia come c’era finita?
«Era già lì da sette o otto generazioni. Un nostro avo fu rabbino capo al tempo di Napoleone. Parte della storia della mia famiglia è stata raccontata nel romanzo di Amitav Ghosh Lo schiavo del manoscritto. Quel manoscritto fu ritrovato insieme ad altri documenti al Cairo, nella sinagoga Ben Ezra, e trasferito a Cambridge. È una storia che si svolge nell’Egitto ottomano e si riferisce, in parte, alla mia famiglia. Quell’antico documento era stato a lungo custodito nella genizah del Cairo, cioè nel luogo dove erano riposti i manoscritti ebraici».
Quindi la tua famiglia era del Cairo?
«Da parte di nonna sì. I nonni erano commercianti di cotone e avevano rapporti con l’Inghilterra, in particolare con la città di Manchester e con l’impero austro-ungarico. Erano piuttosto facoltosi, al punto che mio nonno comprò una piccola isola sul Nilo dove un architetto inglese aveva costruito una bellissima casa».
Che ricordo hai di Alessandria?
«Ricordo la casa in cui vivevo, piena di collezioni: tappeti, mobili, quadri, ceramiche Iznik; ricordo i profumi che ancora mi accade di rivivere nella memoria tanto erano intensi, ricordo la spiaggia di Agami e la sua sabbia bianchissima, la promiscuità delle persone che la frequentavano».
Chi ha saputo entrare dentro questo mondo, anche segreto, è stato Lawrence Durrell con “Il quartetto di Alessandria”.
«Penso sia una delle cose più belle di Durrell. Mi fai venire in mente il carteggio tra lui ed Henry Miller.
Straordinario per le parti in cui descrive la vita fatua e perversa di Alessandria. Ma poi c’è anche il libro di André Aciman Ultima notte ad Alessandria che restituisce quel senso di disfacimento e di bellezza nostalgica che il giovane André e la sua famiglia provano nel momento in cui sono costretti da Nasser a lasciare l’Egitto insieme ad altre migliaia di europei».
Anche la tua famiglia subì la stessa sorte?
«Non facemmo eccezione. Nel 1952 il re Faruk venne spodestato, nel 1956 ci fu la nazionalizzazione del canale di Suez. Quell’anno ci furono anche i bombardamenti delle forze anglo-francesi. Ricordo la sirena degli allarmi e noi che ci rifugiavamo in cantina e la mamma che oscurava i vetri con la carta blu cobalto. Partimmo alla bell’e meglio. I miei nonni andarono in Svizzera. Mio padre ci precedette in Italia, aveva studiato medicina a Roma e aveva la nazionalità italiana. Lo raggiungemmo mesi dopo con la nave Esperia, arrivammo con mia madre e mio fratello abbastanza provati e, per quanto mi riguarda, con la precisa sensazione che il paesaggio della mia vita fosse cambiato».
Non dai la sensazione di esserti adattata.
«Anche a distanza di così tanti anni non mi sono mai integrata. Mi sento mentalmente sempre un po’ esiliata.
Forse sono le radici ebraiche, per cui certe cose le avverti in modo particolare, come ad esempio la lontananza dai miei primi paesaggi visivi. Inoltre è stato complicato entrare in un mondo in larga parte ricompreso nell’orizzonte cattolico».
Erano religiosi i tuoi?
«Erano credenti, certo. Ma molto laici. La verità è che mi è rimasto uno stranissimo senso di nostalgia non tanto per un mondo perso quanto per quelle percezioni che ancora riesco a fissare. I colori per esempio. A volte penso a certi rossi della sabbia e del mare. E poi le passeggiate. Ma sono ricordi dell’infanzia strappati quasi con violenza e che sono riuscita in qualche modo a salvare. Come si salva un naufrago».
Il non sentirti integrata cosa ha provocato?
«Aver conservato un senso di appartenenza a un altrove e quindi a qualcosa di fondamentalmente inesistente. È uno stato d’animo più che una sensazione fisica che ha fatto sì che non mi legassi mai a gruppi riconoscibili o a cordate di potere. Sono sempre stata un’isolata».
Lo dici quasi rivendicandolo.
«Assolutamente sì, come un segno di libertà. Ma è anche la mia condanna. A conti fatti però mi ha salvato da certe logiche di dominio e da un certo squallore che il potere produce».
Prima parlavi del tuo rapporto con l’arte italiana e ti avevo interrotto sugli anni Sessanta. Da quel periodo è scaturita l’Arte povera che ha avuto il suo cardine nella figura di Germano Celant, cui si è contrapposta successivamente la Transavanguardia ideata da Achille Bonito Oliva. Cosa pensi di questi due protagonisti?
«Celant e Bonito Oliva, in maniera molto diversa, hanno avuto una parte molto importante nella storia italiana dell’arte dagli anni Sessanta in poi. Germano ha americanizzato il sistema cercando di importare da quel continente, soprattutto per le mostre, un diverso abito mentale; oltretutto rivestendo un ruolo fondamentale nell’organizzare esposizioni importanti di artisti italiani all’estero».
Anche la Transavanguardia ha avuto una forte accoglienza oltreoceano.
«Non c’è dubbio, con uno sguardo però diverso».
Diverso in che senso?
«Più nomade e inquieto, più “traditore” per usare un aggettivo che piacerebbe ad Achille e con una matrice più italica. Anche se alla fine raggruppamenti e tendenze appartengono più a una logica classificatoria e critica che non alla realtà dei singoli artisti. Se devo vedere un limite, sia Germano che Achille – con le loro personalità forti e il loro protagonismo – hanno occupato spazi senza lasciare troppo campo alle generazioni successive».
Ritieni valida la distinzione tra storico e d’arte e critico d’arte?
«Forse non è mai stata valida. Mi chiedo se sia mai esistito un bravo storico dell’arte che non avesse anche un occhio critico».
Hai collaborato con molti artisti. Con chi ti sei sentita più in sintonia?
«Con tutti quelli con cui ho lavorato si è creata una forte sintonia, diversa per ognuno perché ognuno è un mondo a sé, e tuttavia basata su un rispetto reciproco. Ho sempre cercato di calarmi, come un attore che interpreta una parte, nel loro mondo, tentando di addentrarmi, come diceva Clouzot per Picasso, in quelle menti per provare a intuire l’origine delle loro visioni».
Chi è l’artista?
«De Chirico una volta usò una frase di Nietzsche che più o meno suonava così: l’artista è come un bambino che gioca smontando il giocattolo per vedere cosa c’è dentro, solo così è convinto di cogliere l’essenza stessa della realtà. Non so se oggi varrebbe ancora».
Hai una definizione di che cosa sia oggi l’arte contemporanea?
«Temo che solo un vaticinatore possa pretendere di averla. Dagli articoli e dai libri che leggo mi sembra che tutti provino quello stesso sentimento di confusione e di incertezza che viviamo oggi».
Chi influenza il mercato dell’arte e quanto effimere possono essere le quotazioni di un’opera?
«È banale dirlo, ma le gallerie più influenti, i collezionisti e da ultimo aggiungerei i social, condizionano il mercato e i critici. Quanto alle quotazioni effimere, che dire? Se le verità sono effimere, se tutto si affida allo sforzo di una narrazione accattivante, non puoi aspettarti che l’effimero e con esso la delusione che ne consegue».
Dopo la mostra su Savinio cosa stai preparando?
«La mia anima orientale – per natura scaramantica – mi bisbiglia nell’orecchio di tenere il segreto. Però un progetto da tempo lo coltivo».
Quale?
«Alessandria. Penso ai nomi di Kavafis, Ungaretti, Cialente, Marinetti. Alcuni vi sono nati, altri vi hanno vissuto. Da tempo sto pensando di scrivere un libro sull’Egitto di Marinetti. Da lì è partito all’età di 16 anni e dunque lì ha avuto modo di affrontare tutta la sua formazione. Vorrei capire come quegli anni iniziali possano aver inciso sulla costruzione del futurismo».
Faccio un po’ fatica a capire.
«Sai, quello era un mondo di polarità estreme. Primitivo e arcaico per un verso, ma anche fortemente modernizzato. Un mondo in totale antitesi con se stesso. In fondo, sospetto che sia questo contrasto ad aver avuto un ruolo nella fantasia di Marinetti e un po’ anche nella mia, se è vero che alle conoscenze e ai percorsi lineari ho sempre preferito le situazioni meno prevedibili».