Robinson, 4 settembre 2021
Ritratto di Luigi Meneghello
Ogni volta che prendo in mano un libro di Luigi Meneghello mi rendo conto che esiste un modo di parlare della provincia senza essere provinciali. Meneghello, veneto di Malo, provincia di Vicenza, è davvero l’antidoto più sicuro ed efficace contro il localismo becero e xenofobo. Ciascuno di noi è legato al luogo in cui è nato, dove ha mosso i primi passi ed è diventato adulto e, se anche è andato a vivere lontano, non finisce mai di amare il proprio luogo d’origine: il paese. E se pure lo detesta, sa bene che questo astio è un’altra forma d’amore. Quando nel 1963 uscì da Feltrinelli Libera nos a Malo fu subito evidente che esisteva un altro modo per raccontare l’Italia dei piccoli borghi e delle cittadine: il paese era un mondo, e il locale è sempre globale. Se questo era già evidente, ad esempio, per la letteratura siciliana, da Pirandello a Tomasi di Lampedusa, il Nord dell’Italia non aveva avuto ancora l’epopea dei microcosmi, o almeno non usando una lingua così nuova che metteva a frutto l’acutezza filologica per creare uno stile davvero unico. Vero che c’era stato Gadda, e poi Mastronardi, ma Meneghello è qualcosa di diverso, perché non appartiene né all’espressionismo linguistico del primo né al realismo sociale e disperato del secondo. Quando prendo in mano uno dei libri di Meneghello mi rendo conto che è lui l’anti-Pasolini: un affabulatore che si muove nella” sfera mnestica”, come ha scritto Cesare Segre, senza alcun rimpianto per il passato. Pur appartenendo alla generazione di Pasolini ( il prossimo anno sarà il centenario della nascita di entrambi) non c’è una sola pagina dello scrittore di Malo che sia segnata da una struggente nostalgia, per quanto parli di continuo del passato, del proprio passato e di Malo. Questo dipende dall’essere stato Meneghello un “dispatrio”, uno che nel 1947, cadute le illusioni resistenziali, svanita la speranza di cambiare in profondità il paese uscito dalla guerra, se n’è andato in Inghilterra con una borsa di studio e ha finito per insegnare tutta la vita all’Università di Reading. Per questa ragione la sua lingua risente sia del vicentino – il dialetto di Malo – come dell’inglese diventata la lingua di comunicazione quotidiana. A livello profondo, è scritto nel risvolto di un’edizione di Libera nos a Malo, «non ci sono pensieri, luoghi e lingue di seconda classe»: è proprio così. L’altra ragione per amare Meneghello è il suo secondo libro, I piccoli maestri, uscito nel 1964, uno dei più bei libri sulla Resistenza che siano mai stati scritti, che fa il paio con l’altro grande scrittore di questa pagina della nostra storia, Beppe Fenoglio, anche lui un” dispatrio” in patria, e con una travolgente passione per l’inglese. Chi non ha ancora letto I piccoli maestri, se lo procuri al più presto. Non solo è scritto in un modo straordinario, ma fa capire cos’è stata la guerra civile, la paura e l’ingenuità, ma anche la determinazione di quei giovani partigiani. Libro anti- eroico per eccellenza, racconta d’una generazione di ragazzi allevati sotto il Fascismo che si trasformano in combattenti antifascisti. L’esordio è bellissimo, con la voce narrante, Meneghello medesimo, che racconta il recupero del parabellum – la pistola – lasciato sull’Altopiano di Asiago durante un rastrellamento, cui è sfuggito per pura fortuna nascondendosi in un anfratto del terreno. Ci va con la sua morosina, la Simonetta, e lo trova ancora efficiente. Quando lei le chiede perché ha lasciato la sua arma lassù, lui le risponde: «San Pietro fa dire il vero», dissi. «Non eravamo mica buoni, a fare la guerra». Di tutti i libri sulla Resistenza questo, arrivato in ritardo di vent’anni, è il più bello insieme a Una questione privata di Fenoglio. Dagli archivi della memoria, che ogni scrittore possiede, Meneghello lascia emergere buchi, mende, mancanze e vuoti, che non si preoccupa di riempire. Scrittore antropologico – come lo sono Sciascia, Primo Levi e persino Calvino – pone un argine alle vibrazioni personali del bel tempo passato: parla del paese, delle persone e delle loro espressioni dialettali, con passione ma senza nostalgia: «cerca di rivedere il Sé bambino nella totalità del contesto» (Segre). Una rilettura del Veneto leghista e strapaesano degli ultimi trent’anni non può che ricominciare da questi due libri, e anche da Fiori italiani, scritto in terza persona, storia dell’educazione fascista e clericale ricevuta da un’intera generazione di giovani italiani. Libro pedagogico come pochi altri, non contiene nessuna volontà di insegnare. C’è poi in Meneghello un atteggiamento verso i luoghi naturali che oggi definiremmo ecologista, ma sempre senza nessuna venatura ideologica. Parlando della sua esperienza partigiana ha scritto: «Le forme vere della natura sono forme della coscienza. (…) Lassù, per la prima volta in vita nostra, ci siamo sentiti veramente liberi, e quel paesaggio si è associato per sempre alla nostra idea di libertà». Meneghello è dunque anche scrittore del paesaggio, ma sempre in modo anti- retorico, perché l’esperienza, ogni sua esperienza, è filtrata dal linguaggio, così lo scrittore di Malo con il suo continuo pendolo linguistico si presenta come un esempio unico di chi fluttua tra il dialetto del paese, l’italiano illustre del Liceo Classico e l’inglese degli studi e della vita in Inghilterra.
Insomma un autore da riscoprire in questo paese che si avvia, nonostante tutto, a diventare multietnico senza perdere il suo provincialismo secolare: una eredità da non dissipare perché senza identità non si vive, per quanto incerta e fluttuante essa sia.a