Corriere della Sera, 5 settembre 2021
Intervista a Jadwiga Pinderska Lech
Inutile cercare Auschwitz o Birkenau, in tedesco. Devi scrivere Oswiecim, in polacco. Sui navigatori delle auto lo trovi nel menu «Attrazioni turistiche», anodinamente indicato come «campo di concentramento». Il paradosso del più immenso campo di sterminio concepito dall’uomo – oltre 1,1 milioni di morti, in maggioranza ebrei – è questo: un non luogo, per i cartografi, visitato però da 1.000 persone l’ora, 10.000 al giorno, 2,2 milioni nel 2019, prima della pandemia.
Jadwiga Pinderska Lech è la presidente della Fondazione vittime di Auschwitz-Birkenau. «Quanti superstiti restano in vita? Stimiamo che nel mondo siano almeno un centinaio». È lei a dare voce ai sopravvissuti. Valuta i loro manoscritti e decide se pubblicarli o no. Come responsabile della casa editrice del Museo statale di Auschwitz-Birkenau, tra inediti e ristampe manda in libreria un volume a settimana, in 22 lingue. Mai romanzi: solo storie vere. «Il bambino con il pigiama a righe lo avrei respinto».
Pinderska Lech arriva la mattina alle 7 in quello che fu l’ospedale del Dottor Morte, riservato alle SS. Ha ereditato l’ufficio che dal 1942 al 1945 appartenne a Eduard Wirths, medico capo del lager, il superiore di Josef Mengele. Dalla finestra vedi l’unica camera a gas che non venne distrutta dai nazisti, perché dal 1944 ne fecero un rifugio antiaereo. Accanto, la forca da cui il 16 aprile 1947 penzolò Rudolf Höss, il comandante del campo di sterminio, impiccato per ordine della Corte Suprema di Varsavia. Intorno, la doppia recinzione di filo spinato, un tempo percorsa dall’elettricità. Sullo sfondo, seminascosta dagli abeti, la palazzina in cui Höss viveva con la moglie e i cinque figli.
La sua professione costringe talvolta Pinderska Lech a trasformarsi in detective. «Mi è accaduto con Antonio B., un veneto. Oggi dovrebbe avere 98 anni. Nel 2015 si presentò in questo ufficio con un regista. Sosteneva di essere stato fra i Sonderkommando, i prigionieri costretti a rasare a zero i compagni di sventura prima che fossero gasati, a strappare i denti d’oro alle salme e a incenerirle nei forni crematori».
Che io sappia, gli unici Sonderkommando italiani erano Shlomo Venezia, suo fratello Maurice e i loro due cugini.
«Infatti cercai negli schedari il numero di matricola di B. ma apparteneva a un altro deportato. Inoltre questo signore non era ebreo e non recava il tatuaggio sul braccio. In compenso aveva imparato a memoria la Monografia del campo edita da noi. Andava in giro a tenere conferenze. Aveva persino ricevuto una medaglia dal vostro presidente della Repubblica. Era già stato qui dieci volte».
A quel punto lei che cosa fece?
«Telefonai a Marika Venezia, la vedova di Shlomo. Mi confermò che fra i Sonderkommando insieme con il marito c’era solo un altro italiano, un triestino, che morì ad Auschwitz. Contattammo le nipoti del sedicente testimone. Promisero d’impedirgli altre uscite pubbliche».
Shlomo mi raccontò di quando tra le salme portate fuori dalla camera a gas trovò un neonato ancora vivo che succhiava il latte dal seno della madre morta. Un SS sparò un colpo di fucile in bocca al piccolo. «Non usò la pistola, per non schizzarsi di sangue le scarpe».
«Venezia veniva qui spesso con scolaresche o politici. Benché fosse una persona mite, diventava nervoso. Si trasfigurava, stava malissimo. Ma ricordava ogni dettaglio con impressionante rigore».
Quanti Sonderkommando restano?
«Forse uno solo in Israele, afflitto dal morbo di Alzheimer. Lo storico Gideon Greif li ha intervistati tutti nel saggio Abbiamo pianto senza lacrime. Le SS li avevano ribattezzati Geheimnisträger, custodi del segreto. Ad Auschwitz erano confinati in una baracca separata dalle altre. Dal maggio 1944 li mandarono a dormire nelle soffitte e in uno spogliatoio dei crematori di Birkenau. Sapevano tutto, perciò dopo qualche tempo molti di loro venivano eliminati».
Liliana Segre non è mai tornata a Birkenau. «È il cimitero della mia famiglia, però mi manca la forza per andarci», mi disse. «Una volta arrivai fino a Praga, sentii un odore che mi ricordava la Polonia e dovetti rientrare subito in Italia».
«Per cinque anni ho presentato i nostri volumi al Salone del libro a Torino. Ogni volta portavo un sopravvissuto. Invitai la signora. Venne. Sono amica di tanti scampati italiani, da Piero Terracina alle sorelle Andra e Tatiana Bucci, da Goti Bauer a Sami Modiano. Ma il racconto di Liliana Segre è fra i più vividi che abbia mai ascoltato. Mi ricorda quello di Halina Birenbaum, un’ebrea polacca catturata a 14 anni, raccolto nel libro La speranza è l’ultima a morire».
Segre mi confessò: «Non riuscirei a intrupparmi in comitive che scambiano un pellegrinaggio per una gita e la sera corrono a ballare in discoteca».
«Potremmo tenerle fuori? Il problema esplose nel 2005, quando l’anniversario della liberazione di Auschwitz fu celebrato da una diretta tv con 60 Paesi collegati. Prima di allora, non avevamo mai superato il milione di visitatori».
Ma lei non avverte il rischio che da tempio del dolore e luogo della memoria questa diventi un’attrazione vacanziera?
«È una forma di turismo, come si fa a negarlo? Inevitabile, con voli low cost da 40 euro verso Cracovia. Direi però che la maggioranza delle persone si presenta ai cancelli spiritualmente preparata. Penso a quella coppia d’italiani, lui fruttivendolo e lei parrucchiera, che dopo la visita guidata hanno comprato tutti i nostri libri pubblicati nella vostra lingua, e ai suoi connazionali che sopportano 8 ore di via crucis sui 170 ettari di Birkenau».
Non la disturba occupare la stanza un tempo appartenuta a Eduard Wirths?
Ho smascherato un veneto che
si fingeva un Sonderkommando
Dio nei campi di sterminio c’era,
l’ho capito da un rosario di pane
«Fa parte della tristezza del luogo. Wirths anticipò la fine di Höss: s’impiccò da solo il 20 settembre 1945, in prigione, mentre aspettava il processo».
Come sa che lavorava dove ora c’è lei?
«Ce lo ha confermato Hermann Langbein, un prigioniero politico non ebreo, che fungeva da suo segretario nell’ufficio accanto a questo. Ho conosciuto il figlio, Kurth Langbein. Fa il regista in Austria. Nel 2019 portò qui Peter Wirths. Dopo essersi sporto dalla finestra, l’erede settantatreenne del criminale sospirò: “Vorrei capire quali fossero i pensieri di mio padre nel vedere tutto questo”».
Che cosa risponde ai negazionisti, per i quali l’Olocausto è un’invenzione?
«Nulla. Conosco bene il loro metodo».
Me lo spieghi.
«Decontestualizzano. Prendono un frammento da un documento o dalla testimonianza di un sopravvissuto e lo confrontano con altre fonti per cercare di coglierne le contraddizioni. In Italia avete uno specialista in materia, tale Carlo Mattogno. Capita persino che portino qui le scolaresche al solo scopo di mettere in dubbio la veridicità della Shoah».
Quali argomenti oppone a David Irving, che nega le morti per asfissia?
«Uno solo. Lei lo ha visto entrando nel mio ufficio. È la struttura originale di una camera a gas, non come i forni crematori, che sono stati invece ricostruiti usando gli elementi in ferro recuperati dopo che i nazisti li avevano fatti esplodere per cancellare le prove dello sterminio. Ha ancora sul tetto i camini, dai quali venivano gettati i granuli di Zyklon B. Custodiamo 947 barattoli di acido prussico, in prevalenza da 5 chili, alcuni da 2, altri da 6, un paio addirittura da 16 chili, utilizzati per le uccisioni di massa. Furono trovati dagli Alleati».
È questa la prova regina della Shoah?
«No. Sono le testimonianze di chi aveva accesso ai documenti riservati e alla contabilità dell’ecatombe. Perché gli aguzzini avrebbero dovuto definire le soppressioni “traslochi” o “azioni speciali” se fossero state morti naturali? Conserviamo i progetti per le Gaskammer della Topf und Söhne di Erfurt, la ditta degli impianti che dopo ciascun eccidio ventilavano gli stanzoni delle finte docce. Mosca c’inviò negli anni Novanta migliaia di fogli che erano stati prelevati da una commissione russa incaricata di accertare il numero delle vittime. Fra essi, spicca la rimostranza di un capomastro costretto a interrompere i lavori a causa dell’attività di una camera a gas».
Quale delle terribili vicende avvenute ad Auschwitz l’ha turbata di più?
«Quella che un prigioniero osservò dalla finestra di un block che dava sul cosiddetto “muro della morte”, il luogo dove venivano fucilati i detenuti politici e le famiglie dei partigiani polacchi. Un giorno vi furono condotti un padre, una madre con un piccino fra le braccia e una figlia di 10-11 anni. Mentre aspettavano di morire, la bambina, ben vestita e ben pettinata, si accorse di avere una macchia di fango su una scarpa. Allora s’inumidì un dito con la saliva e la pulì. In quell’istante arrivò Gerhard Palitzsch, primo Rapportführer di Auschwitz, che li uccise uno alla volta a colpi di pistola».
Che cosa pensa dei no vax che si appuntano sul petto la stella di David con cui i nazisti contrassegnavano gli ebrei?
«Mancano le parole».
È credente, signora Pinderska Lech?
«Sì. Sono cristiana cattolica».
Quindi si sarà posta la domanda delle domande: dov’era Dio ad Auschwitz?
«Più volte. E non riuscivo a trovare risposta, come gli innumerevoli israeliti, cattolici e protestanti che in questo inferno sulla terra persero tra patimenti inenarrabili non solo la vita ma prim’ancora la fede. Finché un giorno mi sono fermata ad osservare uno strano oggetto rinvenuto nel nostro archivio. Lo costruì un prigioniero, inanellando minuscole palline fatte con la mollica del pane. Un rosario. Mi ha sconvolto. Chi mai ad Auschwitz si sarebbe privato del razionatissimo cibo per il corpo allo scopo di alimentare la sua anima, se non avesse creduto in Dio e nella vita eterna?».