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 2021  settembre 05 Domenica calendario

Intervista ad Alice Rohrwacher

«Il lavoro sull’invisibile per me è importante quanto il lavoro sul visibile e sentire che questo lavoro è riconosciuto è una grande gioia e una grade spinta a continuare. Per questo è davvero un onore ricevere il Premio Bresson». Alice Rohrwacher, classe 1981, è la regista più giovane a vincere il Premio dal 2000 ad oggi e ci racconta la sua emozione. La Fondazione Ente dello Spettacolo e la Rivista del Cinematografo, con il patrocinio del Pontificio Consiglio della cultura e del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, le conferiranno il Premio Bresson 2021, in occasione della 78ª edizione della Mostra di Venezia, oggi, alle ore 18, presso lo Spazio FEdS al Lido di Venezia (Sala Tropicana 1, Hotel Excelsior). Con la conduzione di Tiziana Ferrario, a consegnare il Premio sarà Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede. Interverrà anche monsignor Davide Milani, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo.
«La sua opera è incardinata in uno spazio che non c’è più e in un tempo che non è ancora – si legge nelle motivazioni del premio –: è rimpianto e promessa, materia arcaica e trascendenza. Gli ultimi bagliori di un mondo in disfacimento, il mondo contadino, si rivelano allo sguardo dell’autrice come epifanie di luce, corpi celesti e resurrezioni».
Alice, lei viene premiata per la presenza costante del trascendente nei suoi lavori, da Corpo Celeste a Lazzaro felice e Omelia contadina.
Si parla sempre della trama e degli attori di un film, ma un film è anche lavorare su un’immagine che in sé contiene un’altra esperienza, simbolica, dell’invisibile. Un esempio per tutti è Pasolini.
Qual è il suo rapporto col sacro?
«La mia educazione è stata totalmente anarchica e al tempo stesso reale. Quando si cresce molto a contatto con la natura, come è successo a me figlia di un apicoltore, il sacro entra nella vita e nei gesti senza bisogno di ulteriori cerimonie. E’ evidente che ciò che si vede è collegato a ciò che non si vede. Personalmente non ho mai aderito a nessuna religione, ma ho studiato storia delle religioni quando frequentavo Lettere classiche all’Università di Torino. Penso che il rapporto dell’umanità con la spiritualità sia stato liquidato in una maniera molto frettolosa all’interno della struttura sociale, è stato rimosso, ma non all’interno degli individui».
Come è arrivata a trasporre tutto ciò nel cinema?
«Mi affascina l’idea di vedere l’anima incarnata. Il mistico e filosofo russo Pavel Florenskji ha influenzato la mia crescita, anche l’idea di dedicarmi alle immagini, sia come contenitori di storie, ma anche come testimonianza di una fiducia. Io mi fido che quelle immagini possono trasmettere qualcosa che le trascende».
A cosa sta lavorando oggi?
«Sto lavorando su una serie tv, una antologia di fiabe italiane, che gireremo l’anno prossimo, che raccontano l’Italia attraverso 8 storie. È prodotto da Wildiside per Rai. Affondiamo nella tradizione italiana dal 1500 al 1800. La fiaba da sempre funziona in antologia, in raccolte, nella moltitudine si trova l’insegnamento più profondo della fiaba. Questo lavoro è servizio pubblico, la serialità ci dà la possibilità
di sviluppare un racconto etico. Prima però girerò un film che affronta il rapporto tra noi, il nostro passato e il nostro futuro attraverso il racconto del traffico illecito dei beni archeologici».
Assieme a sua sorella Alba, attrice, avete raggiunto il successo e spesso lavorate insieme. Come è il vostro rapporto?
«Ci siamo influenzate a vicenda, anche se siamo arrivate al cinema attraverso percorsi diversi. Io attraverso il documentario, il desiderio di raccontare il reale, l’invisibile del reale. Lei invece ha frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Vivevamo in due città diverse, poi ci siamo ritrovate ed è stato una festa. E anche una sorpresa incredibile scoprirci cosi forti anche insieme nella nostra capacità di concentrazione. Quando siamo insieme diamo il meglio di noi nel lavoro. È un rapporto molto vero, in cui ci si dice tutto, anche le cose più difficili. Ma è una grande forza ricevere uno sguardo autenico. Spero di lavorare il più possibile insieme, è un grande piacere anche come attrice».
Siete state anche molto premiate, da Venezia
«Probabilmente è stata capita la nostra sincerità, la nostra necessità di esprimere una prospettiva, un punto di vista e una domanda. Abbiamo ancora la gioia e la fortuna di riuscire a continuare questo lavoro per una esigenza interiore e non per business. Crescere in campagna in Umbria, senza televisione, molto isolate chi ha aiutato a osservare la vita vera grazie al mondo del lavoro agricolo. Ma tramite mia madre, che è insegnante di italiano, sono arrivate anche la grande letteratura, l’arte, il mondo dell’interpretazione. La televisione è uno strumento molto prezioso, ma il rischio è di abusarne, come con il cellulare e internet. Occorre riuscire a mettere limiti. Io non ho la tv in casa, ma solo nel luogo lavoro. Quindi con mia figlia che ha 14 anni, quando vogliamo veder qualcosa».