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 2021  settembre 05 Domenica calendario

Il venerdì senza carne può salvare il pianeta?

Il punto di partenza è il report rilasciato lo scorso 8 agosto dall’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), l’istituzione delle Nazioni Unite che si occupa di cambiamento climatico. Come purtroppo succede a ripetizione, anche questo studio riporta una situazione per niente buona: il riscaldamento globale è una realtà incontrovertibile, la terra non gode di buona salute e il suo futuro è problematico, la necessità di fare qualcosa sempre più urgente. I governi sono chiamati ad agire, però anche i singoli possono farlo. Come. E qui sorge il dibattito del quale ci vogliamo occupare nelle righe seguenti.
L’autrice cattolica americana Alessandra Harris ha lanciato una proposta su Twitter: alla luce della crisi climatica, ha scritto, propongo alla chiesa globale di ripristinare l’astinenza dalla carne in tutti i venerdì, non solo quelli di quaresima. Sarebbe cosa buona per il corpo, l’anima e il globo, ha chiosato.
I commenti sono stati nella stragrande maggioranza positivi, hanno elogiato l’idea e taluni ricordato come pure il pesce meriti di essere risparmiato, magari anche gli altri alimenti di origine animale, magari non solo di venerdì. La stessa Harris ha sottolineato la necessità di impegnarsi di più, scrivendo che già da qualche anno sta evitando la carne di venerdì, ma che ora è il caso di coinvolgere più strettamente la famiglia; un marito e quattro figli, quindi parecchie bistecche consumate in meno.
Va detto, però, che la soluzione del giorno magro implica sbafarsi hamburger e fettine per tutto il resto della settimana: qui forse gli Stati Uniti hanno poca contezza delle abitudini altrui. La suggestione è stata ripresa in un articolo della rivista dei gesuiti americani America, luogo nel quale le questioni sollevate dal lato più progressista del cattolicesimo trovano spesso spazio adeguato. L’articolo è stato scritto da Doug Giradot, ammettendo il suo debito con il Tweet di Harris: alla lettura del report Ipcc Giradot confessa di essersi sentito sopraffatto e impotente, ma l’idea di Harris lo ha indotto a credere di poter fare qualcosa anche come singolo individuo. Per questo ne ha sposato e commentato la proposta, evidenziando anche il valore spirituale/individuale, oltre che ambientale, di una scelta diretta alla sobrietà e alla rinuncia.

UNA STORIA DI LIMITAZIONI
Scritto questo, di cosa stiamo parlando? Fin dalle origini i cristiani hanno fatto i conti con la tavola: le prime comunità digiunavano due volte alla settimana, di norma il mercoledì, giorno del tradimento di Giuda che vende la libertà dei Gesù per trenta denari, e il venerdì, giorno della passione e morte dello stesso Gesù. Poi le norme si sono via via definite meglio, distinguendo prima di tutto tra il digiuno e l’astinenza, ovvero tra l’obbligo di mangiare solo una volta al giorno e quello di evitare determinati alimenti.
Tra i cibi ai quali rinunciare subito si è inserita la carne, certo non sulla base di ragionamenti come quello di Harris, quanto piuttosto allo scopo da un lato di prendere distanza dalla al tempo consolidata tradizione del sacrificio, dall’altro di suggerire una temporanea soluzione all’intoppo psicologico/ideologico di una religione alla radice non violenta che però consente di uccidere per mangiare.
Il digiuno del mercoledì si è perso, sostituito in qualche comunità da quello del sabato, poi la norma si è fatta sempre più blanda, arrivando nella pratica a comprendere non tutti i venerdì ma solo quelli di quaresima, il periodo di quaranta giorni precedente la Pasqua, per i cattolici tempo di penitenza per antonomasia. La severità della regola si è così diluita che in buona parte anche chi è senza indugi fedele ai dettami della chiesa di Roma si limita ad astenersi una volta all’anno, il venerdì santo. Stupisce, al pensare che un migliaio di anni fa i buoni cristiani organizzavano la propria mensa secondo i dettami della teologia e del diritto canonico per quasi la metà dei giorni dell’anno. O forse no, segna semplicemente lo scorrere del tempo.
Perché il digiuno? Lo abbiamo anticipato, per fare penitenza, ma vi era chi tendeva all’esagerazione. Nelle quaresime della chiesa primitiva alcuni fedeli non si accontentavano della fame, cercavano di soffrire pure la sete. Le autorità ecclesiastiche cominciarono a domandarsi fino a dove ci potesse spingere. Enrico da Susa (1200 circa – 1271), cardinale e canonista insigne, se la prese con gli estremisti: i papi consentono agli ammalati e ai deboli di comportarsi come meglio conviene alla loro salute e conformazione, quindi le ottuse pratiche di privazione di certi cristiani non erano affatto segno di virtù, quanto piuttosto evidenza di mancanza di carità, di amore per sé e per il prossimo: esagerare poteva portare persino alla morte e non è questo che la chiesa voleva per i propri fedeli.
Perché la carne? Secondo la medicina antica, le bistecche avevano il potere di accendere le passioni, simbolo di fisicità e di sessualità erano di ostacolo alla continenza. San Girolamo (327-420) era fermamente convinto che il segreto della castità risiedesse nello stomaco. Ci ha lasciato, il santo, una delle tante dimostrazioni documentali dell’antico successo della connessione tra cibo e sesso. In una lettera destinata a una giovane vedova, Furia, cercava di convincerla a non risposarsi per evitare i pericoli della vita carnale e le consigliava di muoversi a piccoli passi verso la cancellazione del desiderio, partendo proprio dall’evitare i cibi che lo alimentano: carne, vino e pure certi legumi.
Oggi le regole su digiuno e astinenza esistono ancora, ne trattano il Codice di diritto canonico e il Catechismo della chiesa cattolica, ma ormai alle limitazioni della tavola si attribuisce poca importanza, tanto che molti fedeli neppure le conoscono, queste regole: a leggerle, tutti i venerdì dell’anno sarebbero ancora giorni di penitenza, il fatto è che la si può fare in modi alternativi, senza per forza rinunciare ai piatti preferiti.

TRE PUNTI
Torniamo al dibattito potenzialmente universale. La prima cosa da scrivere è che il tweet di Harris si pone nella continuità di un infinito flusso di parole spese dai cristiani sul tema, fin dai tempi delle comunità sorte subito dopo la morte di Gesù. Di come si debba mangiare e bere se ne sono occupati in molti, di cosa si debba mangiare e bere hanno scritto in moltissimi: papi, cardinali, vescovi, teologi, canonisti, semplici fedeli, ma anche predicatori, oppositori, convertiti, anticristiani. Basti pensare che anche sulle portate da mettere in tavola si è giocato il grande scontro tra cattolici e protestanti del XVI secolo.
La seconda cosa da scrivere è che il tweet di Harris si colloca in un dibattito per niente risolto: ancora oggi le questioni legate alle alimentazioni sono vivissime, non mancano i ragionamenti sulla liceità dell’hamburger vegano o sulla possibilità di mangiare animali cosiddetti ibridi (un po’ terrestri, un po’ acquatici) in quaresima, per esempio il topo muschiato in Michigan. E non sono questioni risalenti al 1020, ma al 2020/2021.
La terza cosa da scrivere è che Harris e Giradot hanno ragione: di fronte all’emergenza climatica ogni singolo abitante di questo nostro maltrattato pianeta ha il dovere di attivare una strategia, impegnarsi a fare qualcosa nella direzione della sostenibilità. E non v’è alcun dubbio che gli allevamenti intensivi siano tra i principali colpevoli di un inquinamento, appunto, insostenibile. Limitare il consumo di bistecche è certo una strada virtuosa e possibile, magari spinta anche nella direzione suggerita da Michael Pollan nel suo bestseller Il dilemma dell’onnivoro: rifornirsi di carne affidandosi a piccoli allevamenti cosiddetti a chilometro zero. Se poi questo qualcosa si faccia seguendo la propria fede o altre motivazioni, forse non è la cosa più rilevante.