il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2021
Biografia di Pasquale Petrolo, in arte Lillo, raccontata da lui stesso
È come avesse sempre sulle spalle il suo mantello da Posaman, la chitarra a tracollo o qualunque altra diavoleria dei personaggi che da anni porta in giro; poi quando parla si guarda attorno, quasi volesse le assi di legno di un palco, assi sulle quali aggrapparsi come un naufrago in cerca d’autore: perché quella è la sua acqua, la comfort zone, il luogo in cui Pasquale Petrolo, in arte Lillo, qualche decennio fa si è illuminato su quale fosse il suo futuro.
Da allora non lo ha più mollato: “Ho capito che talento e passione non sempre vanno d’accordo. In realtà il mio sogno era diventare disegnatore di fumetti”.
Così la gavetta, quella vera (“per andare avanti ho pure venduto cinte ai semafori”), poi l’incontro con Greg, le serate, il passaparola, il successo, le tournée teatrali, fino ad arrivare al 2021: un anno talmente estremo, nella sua esistenza, da apparire perfetto come una parabola evangelica. Prima è finito in ospedale con il Covid (“Mentre mi spostavano in terapia intensiva un infermiere mi ha chiesto un selfie: ‘Magari non ci rivediamo’”) e, una volta fuori, è entrato nel cast di Lol (trasmissione comica di Amazon, ndr) e ne è uscito come un idolo delle masse.
La sua battuta finale, semplice, diretta, essenziale “Aoh, so’ Lillo” è diventata un tormentone nazionale. E oggi, alle 18.30, sarà alla Festa del Fatto.
La sua gavetta…
Anni e anni di spettacoli ovunque, anche dentro le pizzerie con un pubblico più impegnato ad addentare una margherita e a bere birra che ad ascoltare me e Greg.
Soluzione?
Per fortuna abbiamo sempre suscitato una reazione: o ci applaudivano o ci insultavano, ma almeno non restavano indifferenti; (ci pensa) il nostro genere era demenziale, ma avevamo bisogno di guadagnare ed esibirci, quindi andavamo dappertutto, anche in posti frequentati da tipi imparruccati e donne impellicciate; insomma, un pubblico lontanissimo dal nostro mondo che a un certo punto ci implorava di smetterla e di lasciarlo in pace.
Ci restavate male?
Noooo (stupito), capivamo e salutavamo.
Quando si è illuminato sul suo talento?
Per caso, in realtà non avevo messo in conto di diventare attore; da bambino ero estremamente timido, chiuso, amavo giocare da solo con i miei soldatini, non avevo alcuna necessità di esibirmi; (ci pensa) ero già fissato con i fumetti, volevo diventare un fumettista professionista e con tigna ho iniziato a disegnare, ma senza grandi qualità artistiche; c’erano altri ragazzi, oggi professionisti del settore, dotati di una mano fantastica, mentre io mi facevo un culo inaudito solo per stargli in scia.
Allora lo spettacolo.
Appunto, per caso ho scoperto che sul palco il pubblico era attratto da quello che combinavo: nasceva un’empatia reciproca, un dialogo muto tra me e la platea, quasi inspiegabile.
Torniamo a lei bambino.
Uno dei bambini più chiusi del pianeta, giocavo con i soldatini e creavo storie, le arricchivo di giorno in giorno attraverso un lavoro di fantasia introspettiva, dialogavo con me stesso; il problema nasceva quando mamma optava per la socializzazione forzata e mi piazzava accanto i figli delle amiche e questi mi rompevano le palle: si sedevano accanto a me e mettevano bocca, pretendendo pure di variare la narrazione.
E lei?
Mi ribellavo; (pausa) solo dopo le scuole superiori ho iniziato a trovare ragazzi con le mie stesse passioni e stile di vita, prima di allora sono stati “cacchi” (guai, ndr).
Perché?
Sono cresciuto in borgata, quella vera, dove la strada era prerogativa di chi se la sapeva conquistare senza freni. Molti dei ragazzi di allora non sono finiti bene.
Il suo ruolo?
Sempre il mio: preso in giro.
Errori scampati…
Professionalmente? Anni e anni fa abbiamo rinunciato a un contratto con Rai2, eppure eravamo veramente poveri, non avevamo ’na lira, guadagnavamo qualcosa solo con le Iene; (pausa) lì c’era il rischio di perdere un nostro percorso.
Complicato andare avanti.
Come dicevo, né io né Claudio (Greg) veniamo da famiglie benestanti, mio padre era appuntato di polizia, tre figli, e mia madre casalinga; potevo acquistare un fumetto la settimana, per questo ho iniziato a inventarmi qualunque tipo di lavoro e per questo sono nati Latte e i suoi derivati; tutto potevamo immaginare meno che diventasse, a Roma, una band di culto.
Passaparola.
Allora non c’erano i social, eppure in un anno siamo passati dai localetti da 70 persone a suonare davanti a settemila paganti.
Il punto di rottura verso il successo.
Con le Iene, ma non subito: i primi due anni il programma non andava benissimo, ascolti pessimi tanto che pensavano di chiuderlo; dalla terza stagione c’è stata l’esplosione.
E con la tv non guadagnavate abbastanza?
(Sorride) Pagavano poco, siamo arrivati a 200 euro a servizio, ma era giusto: stavamo all’inizio e ha rappresentato una forma di gavetta.
Lei e Greg, in veste di “Iene”, avete organizzato un agguato ad Andreotti: vi siete avvicinati a lui e alla parola “mafia” avete finto una mitragliata.
(Se ci pensa ancora sbianca) Ed eravamo circondati dalle sue guardie del corpo: dopo lo scherzo, Greg ha simulato un malore e non si è mosso fino all’arrivo dell’ambulanza.
I suoi genitori contenti del successo?
Mio padre non se l’è goduta, è morto giovane e mi ha vissuto solo nelle vesti di precario fumettista, mentre mi arrangiavo con i lavoretti del caso; nei momenti di sconforto scuoteva la testa e accompagnava il gesto con la frase: “Guarda che in questo modo finisci a suonare sotto la metropolitana”. Con lui ho discusso molto. E comunque mi sono sempre spesato da solo.
E mamma…
La più pragmatica della terra; (ride) una sera mi vede per casa e mi domanda: “Dove vai questa sera?”. “Ho una serata”. “Che?”. “Mi esibisco in un locale”. Pausa. E poi: “Ma ’ndo vai. Ma che la gente paga pe’ vede’ te?”. Oggi è una fan scatenata, e non perché sono il figlio, si diverte e basta.
Quali lavoretti ha svolto?
Credo di essere stato uno dei primi a vendere al semaforo. E parliamo degli anni Ottanta.
Cosa proponeva?
Cinte di tela colorate per jeans; poi sono passato di livello e con la valigetta presentavo i cerotti porta a porta.
E poi?
Ho mollato i cerotti e la mattina disegnavo ranocchiette per un’azienda di borse da scuola, il pomeriggio frequentavo la Scuola Europea di Design; ah, sono stato pure rappresentante di olio per i ristoranti: un disastro.
Come mai?
Non sono in grado di insistere; presentavo i prodotti, poi spiegavo i prezzi, ma il mio era sempre il più caro. Ogni volta mi rispondevano: “Quello del tuo collega è buono, alla gente piace e lo pago di meno”. E io: “Ha ragione, arrivederci”.
Primo sfizio con i soldi guadagnati.
Fumetti e ancora fumetti: andavo nei negozi e sembravo un bambino di otto anni con in mano la carta di credito; una quantità esagerata, una follia dettata da una forma di riscatto; così tanti da non sapere dove metterli.
Per il resto.
Non mi è mai interessata la macchina figa o altri classici sfoghi.
Quanti anni si sente?
Dal punto di vista mentale sono identico a quando ne avevo 20, non ho cambiato neanche una virgola, a parte un po’ di sicurezza in più; mentre sotto il profilo fisico, quando mi alzo la mattina dal letto, dico “oplà”, e così penso che forse sto invecchiando (e quell’oplà lo ripete con un po’ di sofferenza).
A cosa è scampato?
Al Covid; (pausa, sorride) la frase dell’infermiere è stata fantastica, ho riso, perché lui l’ha pronunciata in maniera positiva, della serie “non torna in reparto”, ma visto il contesto sembrava si riferisse alla possibile morte.
Ora a 58 anni ha compiuto uno scalino ulteriore…
Il segreto è non aver paura di rischiare; (sorride) dopo tanti anni si è aperto un pubblico enorme.
Spesso i suoi colleghi parlano di depressione…
Con me i momenti down sono professionalmente fondamentali, solo dal punto di vista umano danno un po’ fastidio; (pausa) quando sto bene sono la persona meno creativa del mondo: non ho voglia di scrivere, pensare, analizzare, mi godo la giornata e basta; mentre da inquieto trovo lo scatto per uscire dalla situazione buia e ogni volta nascono i progetti migliori.
Un comico che ama.
Corrado Guzzanti, lui è pure un amico fraterno: è il più grande di tutti, un genio, un maestro unico e inimitabile. Aggiungo Caterina e Sabina: in quella famiglia c’è qualcosa di speciale.
Lei è considerato un esperto di cinema, eppure non snobba i cinepanettoni…
(Inizia citando Fassbinder e Herzog in maniera appropriata) Conosco i grandi maestri, però amo pure i film di Vanzina e Neri Parenti; (sorride) durante le riprese di Colpi di fortuna ho rischiato di uccidere la Carrà.
Come?
Avevo una scena con lei: dovevamo ballare su un palco, ma durante le prove, per sbaglio, l’ho spinta un po’ troppo in là senza calcolare che dietro di lei c’era il vuoto. L’ho ripresa al volo mentre, per non cadere, roteava le braccia.
E lei?
Ha riso, io me la sono fatta sotto.
Di recente ha dichiarato: “Non so gestire tutto questo clamore”.
Sia io sia Greg abbiamo raggiunto buoni livelli di popolarità, non come ora. Non posso più andare all’Ikea o al centro commerciale, ma per il resto questa situazione mi piace, sono contento. È solo un po’ inedita.
Chi è lei?
Sono costretto a replicare ‘So’ Lillo’. Può apparire banale ma è la risposta giusta oltre la battuta.
Tradotto?
La vera svolta, sia professionale che psicologica, è avvenuta quando guardandomi allo specchio mi sono chiesto chi sono veramente. “Chi sei?” è la questione che tutti dovrebbero avere il coraggio di porsi per capire qual è la strada per la propria esistenza. Io l’ho fatto. E sono qui.