Corriere della Sera, 4 settembre 2021
Diana secondo Kristen Stewart
Il principe e la principessa di Galles si rivolgono la parola due sole volte. Lui le chiede: «Come stai?». «Bene», risponde lei. Carlo è in anticipo, Diana sempre in ritardo. Il fattore tempo sotto la corona inglese, dove passato e presente sono la stessa cosa.
È la vigilia di Natale del 1991, sono i tre giorni in cui Diana maturò la decisione di lasciare la famiglia reale, di uscire dagli obblighi di corte, dalle tradizioni e dalle etichette che la stavano «disgregando», come fa dire Pablo Larraín a Lady Diana nel suo film in gara alla Mostra, Spencer, il cognome di lei. La «regina» del regista cileno è l’americana Kristen Stewart, ormai lontanissima dalla vampira di Twilight, contesa dal cinema d’autore. La vediamo con gli occhi affondati tra malinconia e tristezza.
Kristen, Diana stava entrando in un campo di mine.
«Non voleva diventare regina: voleva essere madre. Il palazzo di Sandringham è l’unico spazio del film che, come dice Pablo, assurge a metafora di una organizzazione più grande. Era una donna intrappolata nelle ruote della tradizione. È frustrante quando la storia che viene divulgata non è quella vera».
Era la donna più popolare e la più sola.
«La più isolata. Soprattutto in quei tre giorni, quando la famiglia, malgrado le voci di flirt e di divorzio, cercava di preservare la pace in vista delle festività di Natale. Nessuno può davvero capire come si sia sentita. L’aspetto più ironico e triste è che non lo sapremo mai. Il film non ci offre nuove informazioni su di lei, non c’è nessun voyeurismo, immaginiamo i suoi sentimenti».
Favola senza lieto fine.
«Tratta da una tragedia vera. All’inizio Diana è una donna spezzata, poi diventa un fantasma e infine guarisce. Ecco, ho cercato la libertà. Ciò che ha catturato l’immaginario del mondo è che quella fiaba potesse avverarsi. Ma non è successo. Avevamo sognato Diana con l’abito da sposa, armati di illusioni».
A proposito di fantasmi, Anna Bolena…
«In quei giorni di solitudine lei, arrivando da sola, senza scorta, vaga nei campi. Le fanno trovare in camera un libro su Anna Bolena, a cui il re tagliò la testa accusandola di tradimento, ma era lui ad aver conosciuto un’altra donna. Il parallelismo con Anna Bolena è il cuore del film, Pablo dice che è una riflessione di come la storia si ripeta».
Ha trovato analogie con la sua voglia di indipendenza a Hollywood?
«Mah, la mia vita non è così altisonante. Una persona normale può scegliere quello che vuole fare: lei si trovò da ragazza su una via predefinita. Noi possiamo scegliere i nostri riferimenti. A me non piace la rigidità imposta».
Carlo le dice: per il bene del Paese, la gente non vuole che siamo il popolo.
«E lei divenne per tutti la principessa del popolo. Diana gettava ponti tra la gente. Se qualcuno un giorno volesse fare un film su di me, vorrei che fosse fatto con lo spirito del nostro».
Quando lei balla da sola...
«Sul set ci svegliavamo con l’idea di scegliere una canzone che desse energia a ogni scena. Miles Davis, i Talking Heads, Lou Reed. La colonna sonora è di Johnny Greenwood, chitarra dei Radiohead».
Vediamo com’era Diana nei giorni dell’addio, la testa incassata tra le spalle, il capo reclinato.
«Alcune movenze le ho dimenticate subito. L’inchino è rimasto con me, il modo di non inchinarsi troppo per non cadere. Diana si sentiva attraversata, guardata dentro, spiata. Non ho speranza, non con loro dice la mia Diana».
Cosa le piaceva di lei?
«Il tocco normale, la semplicità. Dava l’impressione, anche quando era al top, di potersi togliere le scarpe e di chiederti come stai».