Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  settembre 04 Sabato calendario

Montale pittore

Eliot se la cava facendo il contabile, mentre Pessoa tira avanti come interprete commerciale. Kafka sopravvive grazie al posto di perito in una compagnia d’assicurazione, Borges si rifugia nel ruolo di aiuto catalogatore in una biblioteca e Joyce è insegnante precario alla Berlitz School… Sono spesso modesti, con esigui compensi e un pallido rilievo sociale, i lavori cui si aggrappano i poeti e i romanzieri, specie se ancora aspettano che la fama li consacri. Un destino inevitabile. Non per nulla gli antichi avvertivano che «carmina non dant panem» e dunque, poiché con la poesia e le arti non si campa, ci si deve arrangiare.
Fra coloro ai quali va meglio – almeno quanto al rischio di annoiarsi – c’è Eugenio Montale, assunto il 29 gennaio 1948 al «Corriere della Sera» come redattore ordinario. Certo, è libero dal bisogno, ma gli inizi non sono esaltanti per un cinquantaduenne come lui, già celebre per gli Ossi di seppia e le Occasioni, futuro senatore a vita e premio Nobel. Deve «passare» per la Terza Pagina i pezzi di inviati e collaboratori, impaginarli, tagliarli se sono lunghi, titolarli e – in base al contratto – stendere cinque articoli al mese e cimentarsi in qualche traduzione.
L’atmosfera del giornale gli è gradita. «Mi piaceva il lato impiegatizio del mio compito. Mi pareva di stare in una di quelle botteghe dove si fanno le pipe, con gli impiegati che parlano a bassa voce e conoscono la clientela». Ecco come rievoca, compiaciuto, gli esordi, quando si sistema con Indro Montanelli in uno studiolo al piano nobile del palazzo.
Basta poco, però, a fargli cambiar idea. Dopo un po’, con chi gli chiede come mai non esca una sua nuova raccolta di versi, recrimina che «l’attività giornalistica non consente quella specie di otium, di vacanza interiore, necessaria per la poesia…». Insomma, è una dissipazione di energie. E aggiunge, drastico: «Scrivere articoli di giornale è inconciliabile con la poesia». Sentenza che a fasi alterne corregge, sostenendo ad esempio che «il giornalismo sta alla letteratura come la riproduzione sta all’amore. In qualche caso (che è poi il suo, ndr) i due fatti possono coincidere».
Mattina e pomeriggio fa a piedi il percorso da via Bigli, dove abita, a via Solferino. Andata e ritorno a piccoli passi, fermandosi «in bottega» fino a tardi se il direttore lo convoca per un parere, un’idea. È troppo garbato e fedele alle gerarchie per sottrarsi prima della mezzanotte a quelle chiacchierate. Ed è lì, nei silenziosi e austeri saloni arredati da Albertini come il «Times», che matura da giornalista, battendo a macchina recensioni di mostre e libri, ritratti di artisti, elzeviri, critiche musicali, riflessioni di costume, reportage da diversi Paesi. Il più ricordato è da Israele, al seguito di Papa Paolo VI, con Dino Buzzati e Alberto Cavallari (e qui si impone una domanda: poteva offrire, il «Corriere», una copertura dell’evento più sontuosa?).
Servizi di prim’ordine. Gratificanti per lui e per il giornale anche se, quando il poeta allude a questa esistenza parallela, al «secondo mestiere» (così s’intitolano i Meridiani che hanno recuperato dall’oblio i testi dimenticati), i suoi giudizi sulla professione restano altalenanti tra orgoglio d’appartenenza e sfiducia.
Negli anni Settanta un ragazzo gli annuncia dalla campagna veneta un breve saggio su certi incroci letterari degli anni Venti, quando escono più o meno contemporaneamente opere decisive del secolo: gli Ossi di seppia, la Terra desolata di Eliot, l’Ulisse di Joyce, i primi Cantos di Pound. Vuole capire se davvero, come ha letto in un’intervista, il giornalismo (che, dove lo studente vive, sembra un’Atlantide inarrivabile) sia un lavoro «affine» alla poesia, perché – ed erano parole del poeta – «è sempre scrivere, è muoversi in un ambiente contiguo». È possibile parlarne? Montale, pur asfissiato da pretese di incontri, si prende la briga di rispondere. E la sua lettera ridimensiona il sovraccarico di illusioni. «L’Atlantide giornalistica non è affatto inaccessibile, ma è quasi sempre una palude. Se lei ha ingegno può scrivere facendone a meno».
Passano alcuni anni e quel ragazzo entra come redattore in via Solferino. Riesce a cogliere un’immagine del poeta ormai ottantacinquenne, la voce flebile, lo sguardo appannato, poche settimane prima della scomparsa, nell’estate 1981, accompagnando il capo della Terza Pagina Giulio Nascimbeni durante una visita alla clinica milanese Pio X, dov’è ricoverato.
Per lui e per tanti corrieristi di ieri e di oggi Montale resterà, con Buzzati e qualcun altro, una «acuta presenza» come modello di disciplina, di scrupolo e pulizia nel lavoro, di colleganza con i colleghi più giovani. Presenza concreta, persino visiva, a voler cercare. Infatti, quel giornalista – che è chi scrive queste righe – ha avuto modo di osservare qualche opera di un Montale segreto, il pittore, a casa di Andrea Zanzotto, di Goffredo Parise e di Nascimbeni. Il quale possedeva tre di questi dipinti, regalo del poeta di cui era stato amico e biografo, e, prima di andarsene a sua volta, gliene fece dono con una preghiera. «Appendili in un posto giusto dato che Eusebio, come lo chiamavamo in redazione, ci teneva molto. Ti basti sapere ciò che dei suoi quadri ripeteva: “Resto un pittore della domenica, eppure in certi momenti di megalomania credo che i miei siano dei capolavori”».
Sono tele e cartoncini sui quali Montale tratteggiava paesaggi urbani o marine estive, scorci d’interni, nature morte. Il colore di fondo è spesso quello di «foglia secca» e il poeta (che ha in salotto due De Pisis e un Morandi, dei quali si percepiscono in lui vaghe influenze) segna quello spazio con scabre pennellate a olio o a tempera, impugnando anche pastelli e gessetti e mischiando con i polpastrelli vino, rossetto, caffè, cenere di sigaretta.
Parise, omaggiato da Montale di un quadro che lo ritraeva durante una caccia in botte (oggetto di un raccontino dei Sillabari), ricambiò portandogli in via Bigli un’upupa impagliata. Da qui nacque l’iconica foto di Ugo Mulas del 1970, con i profili, uno di fronte all’altro, del poeta e dell’animale. Sì, proprio l’«ilare uccello calunniato» degli Ossi di seppia.