la Repubblica, 4 settembre 2021
I tormenti della contessa di Castiglione
Nel 1867, di ritorno in Italia dopo la morte del marito, Virginia aveva trent’anni, e nonostante gli innumerevoli malanni che l’affliggevano era sempre bellissima; anche se l’incarnato aveva perso luminosità, e la figura si era lievemente appesantita, all’incanto della giovinezza era subentrato il fascino di una donna all’apice del magnetismo sensuale. Ma non ignorava che le restava poco tempo, e si rassegnò dunque a giocare la carta di Vittorio Emanuele II. Da cinque anni, ormai, approfittava dei soggiorni italiani per galvanizzare il sovrano sabaudo con occasionali incontri erotici, certo non privi di vantaggi pratici, ma la scomparsa del marito le consentiva di puntare su un legame più stabile e redditizio… Ora, però, niente impediva a Virginia di ambire a una relazione ufficiale del tutto rispettabile con il sovrano – anch’egli vedovo… Sapeva che la presenza nella vita di Vittorio Emanuele di Rosa Vercellana – ora contessa di Mirafiori e di Fontanafredda – e dei figli che aveva avuto da lei era una consuetudine familiare a cui il sovrano non intendeva rinunciare, ma la Bela Rosin non costituiva certo un ostacolo per Virginia: poteva mai temere il confronto con una contadina zotica e invecchiata anzitempo? La contessa non si faceva illusioni sulla galanteria del re d’Italia. Già da giovanissima ne aveva subìto la rapacità sessuale, e la sua mancanza di educazione, di eleganza, di uso di mondo erano di pubblico dominio. Le qualità che gli venivano riconosciute – fierezza dinastica, coraggio, ambizione, prontezza di riflessi, astuzia, intuito psicologico – avevano come contropartita la prepotenza, la millanteria, la gelosia verso chiunque rischiasse di fargli ombra… Se il re non si faceva scrupolo di comportarsi in modo brutale e di non mantenere le promesse, Virginia era pronta a ripagarlo della stessa moneta: sapevano entrambi che cosa volevano, e se lui aspirava a godere dei suoi favori doveva usarle un trattamento diverso da quello che riservava a domestiche e prostitute, rassegnandosi a compensarla in modo adeguato. La contessa di Castiglione non poteva certo accontentarsi di una modesta pensione vedovile, ed era imprescindibile che il re si facesse carico dell’educazione del figlio del conte.
Le liti cominciarono per un servizio d’argenteria che Virginia aveva trovato a casa del marito e di cui la contessa Mary Casanova rivendicava il possesso. La nobildonna aveva scritto anche al marchese Oldoini, sostenendo di avere venduto il servizio al conte di Castiglione, che però non glielo aveva mai pagato. Sfortunatamente Virginia non era in condizione di restituirglielo perché l’aveva già portato al banco dei pegni e non disponeva del denaro per riscattarlo, perciò aveva detto a Vittorio Emanuele che spettava a lui pagare i debiti del suo segretario. Ma poiché, dopo essersi impegnato a risolvere il problema, il re tardava a mantenere la promessa, lasciandola in balia di una furente Casanova, Virginia minacciò di non mettere più piede a Palazzo Pitti ed ebbe partita vinta: «Come vi dicevo, qui a Firenze ho dovuto tribolare per delle questioni d’interesse con Sua Maestà, che riguardano anche la Casanova» raccontò poi al padre. «Tutto ciò è culminato in una delle scene più terribili che si siano mai viste fra sovrano e suddito, maschile e femminile, sotto una pioggia scrosciante, fra lampi e tuoni, con un fulmine che ha ucciso un cavallo del Re, mentre Sua Maestà in carrozza scoperta ordinava all’aiutante di campo di suonare e tempestare alla mia porta, che io mi rifiutavo di aprire. Gli altri, ministri e favoriti, addetti e camerieri, erano accorsi in massa, dopo avere saputo della mia decisione di non rimettere piede a Palazzo (mai immaginando che venisse di persona) fino a quando non fosse stata erogata una certa somma, promessa dalla parola del Re che avevo dato a suo nome – anche alla Casanova, per diversi affari sporchi dello stesso genere. Quando alla fine la folgore gettò Baby per terra, fracassando i vetri delle finestre, frastornando tutti quanti, il Re entrò e disse: “i Re hanno il privilegio di farsi aprire perfino le porte dei conventi, ma non sarei mai entrato, nonostante il tempo, se non allo scopo di consegnarvi questo plico che ho voluto portarvi io stesso per accertarmi che lo riceviate. Adesso non intendo disturbarvi oltre, e nonostante la tempesta me ne vado, ma vi ricordo che oggi, 28 luglio, è l’anniversario della morte di mio padre, e fu al suo funerale che vi vidi per la prima volta a La Spezia 15 anni fa, e proprio a questa stessa ora ho sfidato il fulmine per obbedirvi”. E se ne andò, lasciando tutti sbigottiti da quel tono foriero di disgrazie…».
Una notte buia e tempestosa, il re ai suoi piedi, i malvagi confusi, il ritorno trionfale alla reggia: la scena era troppo esaltante perché Virginia resistesse alla tentazione di arricchirla con qualche dettaglio aggiuntivo, ma per l’essenziale deve averne fatto un resoconto abbastanza fedele. Il sovrano l’aveva vista per la prima volta il 28 luglio 1853 – anniversario della morte di suo padre – mentre era in villeggiatura alla Spezia con la famiglia. La bellezza di Virginia a sedici anni si era incisa per sempre nella sua memoria. Nel corso di quella stessa estate anche il conte di Castiglione ne era stato soggiogato con le conseguenze che sappiamo.
Quella visita notturna aveva colto di sorpresa perfino lei. Il “Porco Re” cedeva miracolosamente il passo a un cavalier cortese che in nome dell’antico servaggio amoroso si rimetteva al beneplacito della sua dama. Per un momento Virginia aveva aperto il cuore alla speranza. Dopotutto il Medioevo era tornato di moda, e il ruolo che il sovrano le offriva era all’altezza del suo repertorio drammatico.
Il giorno dopo, presa visione della lista completa dei conti rimasti in sospeso, il re si affrettò a rassicurarla con un messaggio breve ed eloquente: «Contessa Nicchia, sarà subito fatto. Tanti saluti, Vittorio Emanuele». E le fece recapitare una fotografia con tanto di dedica: «L’infelice Padrone bacia le mani alla carissima Nicchia, 28 luglio 1867». Verificata una volta di più la sua forza contrattuale, la Nicchia gli faceva ben presto toccare con mano che le raffinatezze che aveva in serbo per lui erano molto al di sopra dei suoi standard di satiro zotico. Un telegramma del settembre di quell’anno recita: «Signora contessa Verasis, stasera mi avete realmente lasciato senza fiato per l’emozione. Vi faccio i miei complimenti con tutto il cuore e vi auguro continuazione in eterno [ in italiano nel testo], V.E.».