La Stampa, 4 settembre 2021
L’ultima intervista a Daniele Del Giudice (è del 2009)
Partecipa a qualche elogio della politica sebbene la materia, in certe calde stagioni, emani cattivi odori. Alle passioni – l’arte, il viaggio, il volo, il vedere oltre la forma – Daniele Del Giudice a sessant’anni aggiunge l’impegno a sapere, a capire, a penetrare, da scrittore, i misteri d’Italia che l’hanno insanguinata, da piazza Fontana a Ustica, lasciando cicatrici tuttora vistose. Parla di polis come se non fosse parola perduta, ma concetto corrente: «La polis è la politica. La polis siamo noi. Certo è stridente il confronto fta l’ideale e le miserie che stiamo vivendo. Se la polis non fa quello che dovrebbe fare, arriva qualcun altro che lo fa. A suo modo, a suo interesse».Anche Pasolini parlava di polis, sfidando «il Palazzo» e le sue immoralità.«Senza preconcetti ideologici, senza tessere in tasca. Attaccato da tutti, da sinistra e da destra. Gli ultimi mesi del 1975 Pasolini si era esposto drammaticamente, era disperato: nessuno poteva ascoltarlo. Ecco un modello di polis: una persona sola contro tutto».Che direbbe Pasolini adesso?«Democrazia non è soltanto il parlamento, portavoce dei cittadini, ma anche il rapporto tra i cittadini. Da anni non esistono comunità che si costituiscano intorno a un pensiero, a un’idea, che nascano dalla “politica” di gente semplice. Non c’è bisogno di un leader. La politica la fai tu nel rapporto con le persone con cui vivi, diceva Pasolini. Lo griderebbe ancora. La democrazia regredisce, si indebolisce, degenera se non si vive con gli altri, se non si pensa con gli altri. Se non si pretende la verità».Allude a Ustica, cui ha dedicato un Canto teatrale con Marco Paolini?«Ustica: ottantun persone alle quali non si può sapere che cosa sia accaduto. Solo ogni tanto qualche cecchino politico dice: sono stati i francesi, i tedeschi. Ce lo dirà Obama, forse. Ma una quantità di cose a galla non vengono mai».Piazza Fontana, la strage di Bologna...«E il caso Moro, devastante. Bisognerebbe analizzare quei delitti uno per uno, decrittare quei geroglifici, sperando di scoprire una nuova stele di Rosetta per carpirne finalmente il segreto. È quello che sto cercando: una possibilità di far emergere quanto non è stato mai rivelato».Un lavoro giornalistico, saggistico?«Narrativo. Un esperimento. Nessuna caccia allo scoop. E nessuna scadenza. Avanzo verso la possibilità di decrittazione. Ho un soggetto vivente. Sarà un lavoro lungo, con figure che hanno molte più capacità di me. Uno scrittore può forse dare un contributo. Cercare e cercare. Un viaggio nella nostra storia recente per raccontare ai nostri giovani – che non hanno certe conoscenze e certe memorie – cose che invece è bene sappiano».Più impervio di tutti i viaggi veri che lei ha raccontati. Una passione nata anche dai libri?«Ho sempre amato quelli che erano capaci di andare oltre. Certo Jack London, Conrad. E figure straordinarie come l’astigiano Giacomo Bove, intrepido ufficiale della Marina, che scoprì il passaggio a Nord-Est attraverso lo Stretto di Bering. Una figura straordinaria del nostro Ottocento, altro che gli inglesi, gli spagnoli! Arriva in Argentina, in Paraguay, in Patagonia. In Congo prima di Conrad. Avrei voglia di rifare quello che loro hanno fatto con minimi strumenti. Forse ho sbagliato mestiere».Le sue prime letture?«Niente favole, nessuno me ne raccontava. C’era in casa l’enciclopedia Utet e ne guardavo le figure. Sui volumi di Selezione mi colpì un racconto di mare: una nave scorta che doveva essere distrutta perché l’altra potesse compiere il suo lavoro. Una quantità di fumetti: mi piacevano i western. E i gialli Mondadori, soprattutto Chandler e il suo Marlowe».Quando si disse: farò lo scrittore?«Mio padre, che stava morendo, mi regalò una macchina da scrivere. Per me era la macchina che fa i racconti e mi venne la voglia di farne. Al ginnasio un prete cattivissimo mi dava tre, quattro in religione. Gli dissi: proviamo con la scrittura. Mi ero appassionato ai Manoscritti di Qumran. Scrissi cento pagine su una figura che poteva essere come quella di Cristo, vinsi un Premio Paolo VI».Come entrò nel giornalismo?«Eravamo poveri. Volevo lavorare, tra un esame e l’altro. Ero stato un anno in Polonia, avevo attraversato quasi tutti i satelliti dell’Urss, ero stato ore inchiodato ad Auschwitz. Tornato a Roma bussai a Paese Sera, aveva bellissime pagine dei libri. “Vi serve un collaboratore sull’Est?”. “L’abbiamo già. Ma se lei volesse occuparsi di letteratura italiana...”. Il redattore mi mette in mano Vizio di forma...».Era il 1971, un Primo Levi fantascientifico.«Comprai tutto Primo Levi. Divorai quei libri. Scrissi, consegnai, trascorsi una notte terrificante. Avrei voluto telefonare alle 8, alle 9. Attesi le 11. “Il suo pezzo è in pagina"».Anche per questo, uno degli scrittori che ha più cari?«Primo Levi è lo scrittore etico per eccellenza, nel contenuto delle sue narrazioni e nella forma. È il grande testimone del ’900, le radici della sua opera, cioè il campo di annientamento e l’operatività sulla materia, sono i tratti distintivi del secolo. Poi trovo fulminanti certi racconti, anche brevissimi. Angelica farfalla illumina in quattro pagine e per via di poche voci il fallimento massimo ma anche più consueto: facilmente la vita non ci rende angeli ma uccelli spiacevoli alla vista, le ali possiamo averle ma forse saranno come “quelle di un pollo arrosto"».E poi venne Italo Calvino. Si parlò di lei come del suo erede.«Questa cosa per me è stata una stangata. Mi hanno massacrato. Nessuno poteva prendere la sua eredità. Era diverso da tutti gli altri, era Le cosmicomiche, contro i tromboni. Era diverso anche nelle timidezze, nelle paure: ricordo una volta a casa sua, aveva appena scritto un articolo su Dante ed era devastato: “Adesso tutti mi attaccheranno”. Il suo lavoro di svezzamento della nostra lingua è stato fondamentale. La sua opera che preferisco tuttora è Se una notte d’inverno un viaggiatore. Ma tutti i suoi libri sono sorprendenti per la ricerca costante di novità».Poiché le piace volare, facciamo un volo sugli altri «suoi» autori. Cominciamo da Musil.«Lo ricorderei non solo per L’uomo senza qualità, ma anche per l’acume di certi saggi, ad esempio L’uomo matematico, un elogio dell’intelletto misuratore che sostiene il sentimento; pensare-e-sentire è appunto la sua idea di letteratura. Messa in pratica nello straordinario incipit del romanzo maggiore dove la pressione barometrica, la temperatura e le fasi dei pianeti rendono al meglio l’emozione di una “bella giornata d’agosto"».Italo Svevo.«È uno dei miei autori preferiti per la sua capacità di produrre trama e scrittura attraverso la menzogna. Credo che Senilità sia il suo libro più lacerante e misterioso: il lettore è messo al muro sotto il fuoco di fila delle menzogne di tutti, travolto da un’immoralità radicale perché mentire è la punta dell’iceberg, l’esito di molte condanne».Eugenio Montale.«È come una montagna, o una testuggine. Ne ammiro tutti i versi, la sua è una poesia che ha saputo mantenersi costantemente geniale. Inoltre trovo formidabili i titoli delle raccolte: a parte Ossi di seppia, penso a Le occasioni o a Satura».Stefan Zweig.«Credo che la parola chiave della sua arte sia astrazione, anche se una volta avrei detto “sicurezza”, di sé e del suo lettore. Zweig è capace di puntare direttamente alla metafora attraverso una scrittura piana e fatta di parole più che consuete come porta, sedia, lavandino, matita o coltello. È come in un enigma, dove è l’espressione linguistica più semplice che richiede massima applicazione all’intelligenza. Nel mito di Edipo e della Sfinge, dire piedi è dire l’intera vita umana con il mistero del suo percorso. La Novella degli scacchi è probabilmente il migliore racconto di Zweig, ma devo ricordare altri due testi precedenti, Sovvertimento dei sensi e Ventiquattr’ore della vita di una donna».Robert Louis Stevenson.«Il master di Ballantrae per me è il migliore dei suoi romanzi. Era uno straordinario narratore ma anche un ottimo saggista. Lo dimostrano Una chiacchierata sul romanzesco, Una nota sul realismo o Alcuni elementi tecnici dello stile nella letteratura, e perfino il suo Libro di cucina».Bobi Bazlen.«Una persona considerevole per molti versi ma sempre sfuggente e distante su cui scrissi il primo romanzo, Lo stadio di Wimbledon».Thomas Bernhard.«La sua ricchezza narrativa anche come drammaturgo continua a stupirmi. Per me il suo libro più interessante resta Perturbamento, che poi è il primo che ho letto».Sigmund Freud.«Non tramonterà mai».Che cosa sono per lei Roma e Venezia?«A Roma sono nato e cresciuto e la sento come la mia città. A Venezia vivo, e benissimo, da quasi trent’anni».Chi ha raccontato meglio Roma?«Non uno scrittore, ma un regista, Federico Fellini».Chi ha raccontato meglio Venezia?«Non saprei, quella nebbiosa acquatica e che sa di notte forse Iosif Brodskij; e poi Hugo Pratt».Chi l’ha raccontata peggio?«Senza dubbio Proust». —