La Stampa, 4 settembre 2021
Una catena di omicidi nel paese di 300 anime
Noragugume (Nuoro)
Davanti all’ultimo cadavere ricoperto di sangue e polvere, c’è una donna che alza la voce e spera che qualcuno la ascolti. Itria Cherchi ha già pianto sulla bara di 5 fratelli e ora si ritrova nel solito dramma: gliene hanno ucciso un altro, vittima pure lui di quell’odio che avvelena il paese da 25 anni. Si rivolge ai carabinieri, anche se ora i militari fanno finta di non sentire: «Anche stavolta farete per Gigi quello che avete fatto per gli altri, cioè nulla. Poi è logico che qui succedono certe cose». La guerra di Norarugume sembrava finita: chiusa, ma evidentemente non archiviata, con un numero di morti persino difficile da ricostruire, con rancori mai sopiti e delitti ancora da vendicare. La giustizia, quella vera, qui ha provato a mettere fine alle vendette ma arresti e condanne non sono bastati a cancellare l’odio fra i 300 abitanti. L’eco dei fucili non si sentiva da anni e ora è iniziato il secondo tempo. E se è vero che gli omicidi di campagna non hanno mai una rivendicazione, stavolta gli inquirenti non possono che ricollegare l’ultimo agguato alla vecchia faida. Perché Gigi Cherchi, raggiunto dalle fucilate mentre chiudeva il cancello della sua stalla, era fratello di due degli altri 10 morti e di uno di quelli che i giudici hanno considerato colpevoli di alcune delle spedizioni punitive. L’ultimo agguato risaliva al 2015 e anche quella volta lo scenario sembrava essere lo stesso, se non altro perché a finire sotto i colpi delle doppiette era uno di quelli finiti in carcere e che una volta tornato in libertà ha subito la condanna peggiore.
Ci sono anche morti sospette, incidenti stradali dubbi, agguati non riusciti, animali ammazzati e innumerevoli attentati tra i retroscena di quello che si può certamente considerato il più sanguinoso romanzo criminale della Sardegna. Non c’entrano nulla, con questa storia, le terribili guerre di mafia: qui tutto inizia per terreni contesi, pascoli occupati senza accordo, sconfinamenti e trattative che a un certo punto si sono trasformate in lotta violenta. Interessi di campagna e vicende di poco valore. Che però bastano e avanzano per giustificare i pallettoni. E la prova gli investigatori l’hanno avuto riascoltando ore e ore di intercettazioni, quando il primo tempo di questa lunga storia era finita prima in un’inchiesta e poi in un processo. A discutere erano due che i magistrati consideravano i mandanti di uno di questi 11 delitti. Parlavano del killer incaricato di far fuori uno dei rivali e a un certo punto si sono ricordati di non averlo neppure ricompensato: «Ci ha fatto il lavoro e non gli abbiamo dato nulla. Domenica vado a trovarlo e gli porto un maialetto».
C’era qualcuno che uccideva gratis, pur di assecondare chi in quel momento a Noragugume sembrava il più forte. Sui due fronti di questa trincea, tra i pascoli e le colline del Centro Sardegna, c’erano (ed evidentemente ci sono ancora) otto famiglie: tre da una parte e cinque dall’altra. Quella di Gigi Cherchi, finito nella trappola di piombo giovedì sera, è forse quella che ha pagato il prezzo più alto. Il primo lutto risale addirittura al 1965, ma quella che si considera la prima vendetta della faida è del 1998: due fratelli eliminati a distanza di pochi mesi. E da lì è scoppiato l’inferno. Gli arresti avevano fermato i fucili e ma le sentenze non sono bastate a cancellare il rancore. E si poteva già immaginare nel 2004, ascoltando gli insulti e le minacce che volevano sui gradini del tribunale, mentre i giudici ripetevano diverse volte la parola “ergastolo”.
Il silenzio è stato solo un’illusione. E chi aveva creduto che questo piccolo paese avesse ritrovato la pace aveva solo trascurato la terribile tradizione delle vendette da servire fredde. In Sardegna non si dimentica facilmente, dicono quelli che il mondo delle campagne lo conoscono bene. Ora i magistrati e i carabinieri cercano la prova che quest’ultimo delitto sia l’ennesimo atto di una guerra che si combatte tra ovili e muretti a secco. Per ora gli investigatori non possono certo contare sull’aiuto di chi la zona in cui è avvenuto l’omicidio la frequenta quotidianamente. «Qui adesso abbiamo paura perché rischiamo di vedere o sentire qualcosa che non vorremmo sapere – dice l’unico dei pastori che in un giorno di lutto ha voglia di dire quattro parole – Quando ti trovi davanti a situazioni spiacevoli, il rischio diventa troppo alto per tutti. Per quello sarebbe meglio far finta di nulla». E così quasi certamente farà chi giovedì sera potrebbe aver visto il killer in fuga. Che qualcuno passasse da quelle parti è ovviamente solo un’ipotesi, ma collegata al fatto che nelle stradina che conduce all’azienda di Gigi Cherchi è stato ritrovato il fucile. Il sospetto, il primo e il più logico, è che il killer lo abbia abbandonato in tutta fretta, per evitare di essere notato con un’arma in mano da qualcuno capitato lì per caso. C’era ancora luce, ma chi cerca di chiarire i contorni di quest’ultimo delitto si muove nel buio pesto. —