la Repubblica, 3 settembre 2021
Il tocco di Maradona che cambiò la vita di Paolo Sorrentino
C’è un prima e un dopo: prima c’è un adolescente insicuro in una bella famiglia affettuosa, dopo, per lui, c’è vuoto e sperdimento e dolore. A unire il prima e il dopo c’è un piccolo uomo miracoloso che glorifica la città, Napoli, con il virtuosismo delle sue gambe. A dividerli, come se fossero due film, un divano su cui siedono in silenzio un uomo e una donna: lui legge il giornale, lei lavora a maglia (e questo ci dice che siamo negli anni 80). Lei si appoggia alla testata e abbandona i ferri, lui smette di leggere e lascia cadere la testa in avanti: non stanno addormentandosi, stanno morendo, uccisi da una fuga di gas. È il ricordo della tragedia che ha sconvolto la vita del ragazzo Paolo Sorrentino, sedicenne, che oggi, nel pieno della sua maturità, 51 anni, e della sua fortunata carriera, gloria internazionale del cinema italiano, è riuscito a raccontare: non credo per liberarsi finalmente da quella amputazione, perché tracce così crudeli non si cancellano mai, ma forse perché, da autore, ha capito che la sua storia privata poteva diventare una storia per gli altri, un film: non una testimonianza autobiografica, ma proprio un film, tra l’altro un grande film, avvolgente, pacificante, che dà una strana sensazione di partecipazione, come se anche noi fossimo lì, con il ragazzo, a quella tavolata tumultuosa di parenti, amici e vicini a passarsi i maccheroni e il sartù, su quei balconi dei palazzi piccolo borghesi a urlare e applaudire tutti insieme per l’ennesimo trionfo di Maradona, del Napoli, di Napoli.
È stata la mano di Dio è la frase che il mitico calciatore argentino dice del suo gol contro l’Inghilterra nel 1986, è quella che dopo la tragedia uno zio dice a Fabietto abbracciandolo, e così ingigantendo il suo furibondo rimorso: perché per non perdere l’ennesima meraviglia di Maradona, non ha seguito i suoi genitori nell’appartamentino delle vacanze a Roccaraso. Loro sono morti e lui no, e il santo cui deve la vita è stato quell’eroe, quel mago, quel dio del calcio che aveva incantato la città e il mondo e non ancora dimenticato. Sorrentino si è dato il nome Fabietto e la faccia di un neo attore, Filippo Scotti, alto, magro, carino e ricciuto, e cui fa tenere la bocca spalancata per la beatitudine davanti allo schermo, in ricordo di se stesso al cinema. Il padre non poteva essere che Toni Servillo, non solo perché ha lavorato con lui fin dal primo film, ma perché può essere tutto, tanti personaggi pur rimanendo se stesso: e anche credo perché è napoletano e oggi, basta vedere il programma della 78° mostra, è da Napoli che arrivano i registi più amati e gli attori più bravi: come in questo film dove gli interpreti che spesso non conosciamo, non recitano ma vivono i personaggi, con il loro aspetto qualunque, i vecchi, le grasse, i brutti, le strambe. Addirittura meravigliosa Teresa Saponangelo, così mamma, così moglie, così casalinga, così lieta, così qualsiasi, da incantare. Fabietto ha l’esempio di questi genitori che ancora si amano, si fanno gli scherzi, giocano, e del fratello maggiore Marchino che ha già la sua vita e la sua ragazza, mentre Fabietto ha i turbamenti e la scontrosità dei suoi coetanei di sempre e curiosità e paura verso i corpi degli altri, i corpi sconosciuti delle femmine, i suoi nebulosi desideri. Sorrentino ha voluto ridare vita alla sua prima giovinezza sino a girare il film nello stesso palazzo in cui abitava, sia pure in un altro appartamento che però ha fatto arredare seguendo i suoi ricordi, ha chiesto al regista Antonio Capuano, per il quale aveva scritto la sua prima sceneggiatura, di essere se stesso, poi è stato vago nel ricostruire le emozioni più personali: si inventa, dice, una zia Patrizia per ricordare una creatura un po’ suonata che incontra San Gennaro, ma anche di rara bellezza (la bellissima Luisa Ranieri), che lui vede nuda o forse lo è davvero, distesa su un barcone in mezzo a tutti gli altri, che lo provoca e lo fa fuggire; poi quando la sua vita fluttua senza l’ancoraggio dei genitori, una coinquilina lo chiama: pare che abbia promesso al papà di Fabietto (si assicura non di Paolo) di aiutarlo ad affrontare l’esperienza del sesso. È una bella signora in età (Betti Pedrazzi) una nobildonna dai capelli grigi, piena di collane, molto gentile: si stende sul letto, si solleva un po’ la gonna, invita il ragazzo di cui pare di sentire il batticuore a mettersi al suo fianco. Non è una divoratrice di fanciulli, non è Colette col suo figliastro Bertrand, è piuttosto una dama di carità che si offre per il bene dei bisognosi, restando signorilmente immobile e rifiutando i baci. Secondo il film, l’esperimento funziona, Fabietto finalmente si è svegliato e corre con la sua moto verso l’avvenire e tutti quei suoi film, compreso questo, che, diventato Paolo Sorrentino, hanno reso la nostra vita più bella. Netflix si è impossessata anche di Sorrentino, forse il più prestigioso dei nostri autori, assicurandogli massima libertà e cospicui indispensabili finanziamenti. Nei cinema, che comunque restano il luogo privilegiato, lo vedremo per qualche settimana in novembre poi dal 15 dicembre sulla piattaforma.