la Repubblica, 3 settembre 2021
Intervista a Laura Santi, la donna che vuole morire im Italia «dolcemente e legalmente»
«Non voglio morire oggi e nemmeno domani. Anzi, se la mia malattia restasse così, se la progressione fosse lenta invece che maledettamente veloce, ve lo dico, io resterei qui. Perché amo la vita, perché ho un marito meraviglioso.
Ma ho la sclerosi multipla da 25 anni e peggioro di mese in mese. So a quali sofferenze vado incontro.
Vorrei, allora, un giorno, poter dire basta, vado via, aiutatemi a morire.
Per questo mi batto per l’eutanasia legale in Italia. E il solo pensiero di poter scegliere quando morire renderebbe già più lievi i miei dolori».
Laura Santi ha 46 anni, vive a Perugia con il marito Stefano, faceva la giornalista, amava viaggiare, nuotare, divertirsi. Ha un blog che si chiama “La vita possibile” un diario crudo, duro ma anche poetico e commovente, di un’esistenza scandita da “lei”, la malattia.
Oggi Laura Santi è testimonial del referendum per l’eutanasia legale promosso dall’Associazione Coscioni. La voce di Laura è fresca e vivace, dalla sua casa di Perugia. «Ci sono alcune ore del giorno in cui riesco a parlare, leggere, pensare.
Scrivere purtroppo no, ormai muovo soltanto i due pollici delle mani. Poi arrivano, invece, le ore di buio, in cui resto immobile nel letto. Nel mio corpo nulla sembra volersi più muovere».
Laura, lei aveva 25 anni quando arrivò la diagnosi.
«Ero giornalista freelance, lavoravo nel no-profit, avevo giornate pienissime, gli amici, la famiglia.
Ricordo di aver pensato, il giorno della diagnosi, con tutta l’incoscienza di quell’età e di un fisico che sembrava ancora integro: la malattia non deve toccarmi. Ero bella, in forma e i sintomi erano lievi. A 29 anni ho conosciuto Stefano, il mio grande amore».
Stefano non ha avuto paura della sclerosi multipla?
«Siamo ancora insieme dopo 17 anni e Stefano oggi mi assiste con pazienza infinita. Potrebbe dirvi mille cose sul ruolo durissimo dei caregiver. Ricordo che glielo rivelai dopo il primo bacio del primo incontro: “Sai, c’è anche la malattia nella mia vita, ci sarà sempre e peggiorerà”. Non è scappato».
(Laura ride).
Cosa vi unisce?
«Oltre all’amore? La cultura. Lui fa il regista, io scrivo. Gli amici. Le passeggiate nella natura.
Nonostante tutto riusciamo a ricavarci degli spazi di serenità».
La vostra rinuncia più grande?
«Un figlio. A 30 anni la sclerosi mandava già i primi segnali, iniziavo a zoppicare, già facevo i conti con l’incontinenza. Nulla rispetto ad oggi, ma ho avuto paura di non poterlo crescere. È stata la mia più grande perdita, forse però è stato giusto così».
C’è un momento in cui è cambiato tutto?
«Sì, in dieci mesi, da gennaio a ottobre del 2016. All’inizio dell’anno ero in piedi, poi, come in una caduta libera, ho avuto bisogno del bastone, poi del deambulatore, poi della carrozzina. La neurologa mi disse: la sua sclerosi è diventata progressiva. L’inizio della fine. Oggi mi spostano prendendomi in braccio, devo essere imboccata, quello che più mi pesa è essere lavata e manipolata da altre persone. Quando la notte riesco a girarmi da sola sono felice come quando vincevo le gare di nuoto».
Nel blog lei ha chiamato quel momento il “turning point della mia vita di malata”. È allora che ha cominciato a pensare all’eutanasia?
«Sono da sempre sostenitrice delle battaglie dell’Associazione Luca Coscioni, credo nel diritto di poter scegliere il proprio fine vita. La mia condizione è molto simile a quella di Davide Trentini, malato di sclerosi e afflitto da dolori atroci che fu accompagnato a Zurigo per il suicidio assistito da Marco Cappato e Mina Welby. Cappato e Welby furono poi processati per quel viaggio. Però il primo passo su questa strada l’ho compiuto soltanto all’inizio del 2021, con il progredire sempre più veloce della malattia. Un giorno scopri che non puoi più pettinarti. O infilarti da sola gli slip. È atroce».
Si è rivolta anche lei all’Associazione Dignitas?
«Sì. Dopo aver mandato la documentazione avevo ottenuto il famoso “semaforo verde”, ossia il parere positivo dell’associazione per poter ricorrere al suicidio assistito. Non volevo morire. Volevo essere certa di poterlo fare».
Laura, lei ha un tatuaggio sul polso con la scritta “tregua”.
«È quello a cui noi malati aspiriamo: tregua dal dolore, dall’avanzare della malattia, tregua da un corpo che non risponde più».
Pensa ancora di andare a Zurigo?
«È una possibilità, ma preferirei morire qui, con l’eutanasia legale. Per questo mi batto per il referendum. Per i tanti malati che hanno sofferenze insopportabili.
Speriamo che non ci voglia troppo tempo.
Il mio corpo è già un prigione. Ogni mese è come se perdessi un pezzo. Non ho ancora i dolori che aveva Trentini, ma ci sarà un giorno in cui non muoverò più nulla».
Suo marito Stefano? Ce la farà?
«È un uomo forte, dal cuore grande. Ne abbiamo parlato tanto. Sa che amore è anche lasciare andare. Mia madre è con me. Soffriranno, lo so, ma vedermi soffrire potrebbe essere ancora più duro».
C’è un tempo, un limite, una scadenza?
«Per adesso sono felice, ancora, di aprire gli occhi e di essere qui. Di stringere la mano di Stefano. Di riuscire a pensare e a leggere.
Domani chissà. Per questo chiedo: fate in fretta, fatemi morire in Italia, dolcemente e legalmente».