il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2021
Il califfo secondo Umberto Pizzi
Franco Califano è stato un vero personaggio da cinepresa, era il “grande schermo” fatto persona: quando è uscita la serie tv Romanzo criminale, ho pensato immediatamente a lui.
Lui era dentro quel clima, quegli atteggiamenti spavaldi, il desiderio di ostentare, di stupire; l’esigenza di mostrarsi sempre e comunque come un Re: a prescindere dalla situazione o dal contesto, lui si riteneva la situazione e il contesto.
Noi fotografi un po’ lo temevamo, anche perché, spesso, con lui o vicino a lui pizzicavamo i brutti ceffi del periodo, gente pericolosa, non proprio avvezzi ai riflettori: soggetti che preferivano restare lontani dalle liturgie dello spettacolo.
Califano no.
Lui amava venir fotografato, era una sorta di consacrazione quotidiana del suo status di celebrità, quindi ci cercava, ci chiamava e arrivava a creare delle situazioni ad hoc per poi offrirci il servizio giusto. A volte queste “situazioni” si tramutavano in sceneggiate tremende: nel periodo in cui era agli arresti domiciliari per droga, arrivavamo a casa sua e iniziava a piangere, non un pianto normale, proprio una sceneggiata. Poi la sera cambiava linea e apriva la porta a qualcuna delle sue donne, anche più di una alla volta e a tutte mostrava il suo copriletto in pelle e pelo di leopardo.
Sulle donne non transigeva.
Negli anni lo abbiamo visto accompagnato dalle più belle, le più famose, le più cercate. E il programma era una certezza: arrivava, apriva la portiera dell’auto alla signorina, si guardava attorno, quindi con un gesto calibrato si sistemava la giacca e a quel punto iniziava la sfilata verso l’entrata del locale. E noi: “Califfo, che famo stasera?”. “Ragazzi, aspettate e vedrete”. Il problema è che la sua serata finiva all’alba e quasi mai in maniera lucida.