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 2021  settembre 03 Venerdì calendario

Il primo giorno del Fatto

La sera del 22 settembre 2009 la sveglia suonò alle 20 in punto: l’avevamo regalata noi giovani cronisti ad Antonio Padellaro, preoccupato da eventuali sforamenti nella chiusura del primo numero del Fatto Quotidiano. Si respirava aria di festa, quella sera, e si stapparono le bottiglie quando Cinzia Monteverdi e altri colleghi tornarono in redazione con le prime copie del giornale, ritirate direttamente dal centro stampa. Un’euforia contagiosa, a giudicare dal numero delle copie vendute il giorno dopo (100 mila, andammo esauriti in moltissime città) e dalla quantità di pasticcini che ricevemmo nei mesi successivi da parte di preziosi lettori che attraversavano l’Italia per venire a trovarci in quelle due camere e cucina che erano la sede di allora. “Se fra un anno il giornale va male – ripeteva Padellaro –, si chiude: non si vivacchia”. Una scommessa ardita, perché l’editoria era già in crisi. Anzi, “Una lucida follia”, come giustamente si chiama il documentario in quattro puntate sulla storia del Fatto Quotidiano che arriva oggi su TvLoft (in abbonamento o acquisto singolo al costo di 4,49 euro su tvloft.it, app e smart tv). Antonio Padellaro, Marco Travaglio, Peter Gomez, Marco Lillo, Cinzia Monteverdi; e poi ancora, Furio Colombo, Andrea Scanzi, Silvia Truzzi, Gianni Barbacetto, Selvaggia Lucarelli, Massimo Fini, Loris Mazzetti (e chi scrive): le firme e i volti che hanno reso onore – come tutti gli altri colleghi della carta e del sito, anche coloro che non ci sono più – al patto siglato con i lettori: l’indipendenza, la ferma volontà di non farsi dettare l’agenda da nessuno, l’urgenza di raccontare “quello che gli altri non dicono”. Come l’indagine su Gianni Letta, il titolo con cui aprimmo il primo numero: scoop per modo di dire, poiché la notizia era nota in tutte le redazioni, ma nessuno poteva o voleva scriverla. O come tutti gli altri scoop che nel doc vengono raccontati: da Ruby a Stefano Cucchi, da Mps alle telefonate tra Napolitano e Mancino al processo sulla Trattativa. “Guai al giornale che non ha nemici”, ripetono i nostri direttori, e noi certo di nemici ne abbiamo avuti, e ne abbiamo, molti: dall’istrionico Caimano (“il sogno di ogni giornalista”) all’Innominabile, dagli inquilini del Colle (“venerato più della Madonna”, ricorda Travaglio) a quelli di Palazzo Chigi (compreso “il sobrio cane di Monti”).
Dalle parole delle nostre firme emerge la fatica del tenere sempre la barra dritta, ma anche il timore e il conseguente coraggio necessario a distinguersi dal resto della stampa italiana, quasi tutta mestamente asservita al potere. Ma c’è un’altra caratteristica di cui non possiamo fare a meno: l’allegria. Quel prendere in giro bonariamente anche i nostri errori, che ci sono stati e che ci saranno. Con la consapevolezza, però, di non essere mai stati ipocriti. E con la volontà di restare un giornale “allegramente contro”.