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 2021  settembre 03 Venerdì calendario

Il punto sui monoclonali. Intervista a Renato Bernardini

“Io e mia moglie abbiamo preso il Covid a dicembre, quando i monoclonali non c’erano, li avrei presi di corsa, mi son dovuto curare con l’Aulin rischiando complicazioni. Da mesi c’è una cura specifica autorizzata contro il Covid ma non viene data a chi ne ha bisogno, qualcosa mi sfugge”. Renato Bernardini è un farmacologo di fama, consigliere del cda Aifa e membro del Consiglio superiore di Sanità. Rilegge una notizia diffusa pochi giorni fa dall’Aifa, in cui si da conto di “quasi 8.000 monoclonali prescritti, +30% in 7 giorni”. Ma anziché esultare, gli cadono le braccia. E dà un consiglio ai cittadini: “È ora di mobilitarsi per le cure cui avete diritto”.
Cosa ne pensa dei dati?
Un aumento del 30% significa 505 pezzi contati francamente un po’ deludente, diciamo così. Nel dettaglio emerge il divario enorme tra regioni: la mia Sicilia, ad esempio, ha avuto un picco di 9.715 nuovi contagi, pari al 25%-30% a livello nazionale, nella stessa settimana ha garantito solo 57 terapie. Si è perso il criterio di “prevalenza” che è alla base delle forniture.
I farmaci ci sono da mesi, perché si fatica ancora a darli?
Al momento sono disponibili le infusioni da 60 minuti che richiedono una forte di organizzazione sanitaria territoriale. Su questo c’è molto da fare, perché i monoclonali saranno un’arma sempre più indispensabile. Lo dimostra l’allargamento della platea dei pazienti trattabili.
Aifa ha cambiato orientamento.
All’inizio i dati indicavano un’efficacia solo nelle fasi iniziali dell’infezione, dunque in pazienti non ospedalizzati. Studi recenti la dimostrano anche in fasi avanzate, purché non ad alti flussi e in ventilazione meccanica. Per questo Aifa ha allargato la platea dei pazienti e i numeri sono in crescita, un trend che speriamo si consolidi. Anche i medici devono fare la loro parte.
Esiste un problema medici di famiglia?
È una delle spiegazioni alle basse prescrizioni. Il medico di medicina generale sembra non gradire di instradare il paziente verso gli ospedali in favore degli specialisti. Ma non è tempo di difese corporative.
Come si vince questa resistenza?
I cittadini sanno che c’è una terapia specifica che può essere efficace, a certe condizioni. Devono sapere anche che nessuno verrà a prenderli a casa per dargliela. Devono insistere col loro medico.
Quando avremo dati sull’efficacia?
A maggio sono stati approvati studi finanziati da Aifa, ma non si concluderanno prima di un anno. Contiamo confermino quanto già vediamo con l’uso emergenziale.
Che fine ha fatto il “monoclonale italiano” su cui lo Stato ha investito 15 milioni di euro?
Quello della fondazione Toscana Life Sciences aveva suscitato molte aspettative: è disegnato per essere iniettato intramuscolo, anche a casa con forti risparmi in termini organizzativi e sanitari. Doveva arrivare a maggio, poi luglio. A quanto mi risulta non è partita la sperimentazione di fase 2-3. Pare manchino candidati.
Del resto, perché immolarsi alla ricerca anziché curarsi?
Certo, il problema c’è, ma anche le motivazioni per contribuire alla ricerca. Abbiamo bisogno di tanti anticorpi perché rispondono diversamente alle varianti, anche qui si gioca la partita contro il Covid.
A ogni variante, riguardo al monoclonale, come si sceglie quale dare?
Per saperlo dovremmo sequenziare il virus come fanno altri Paesi, trovo inspiegabile non si faccia. Sento rispondere che non serve, ma come si farà a trattare il paziente con l’anticorpo specifico più efficace?
Qualcuno ne risponderà dei ritardi?
Temo di no. Pagheremo noi contribuenti e a costi sociali molto alti. Non c’è altra soluzione che aumentare la consapevolezza di questo tra gli operatori sanitari e i diretti interessati.