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 2021  settembre 02 Giovedì calendario

LA VERSIONE DI MUGHINI - "DANIELE DEL GIUDICE È STATO IL MIGLIORE SCRITTORE ITALIANO DELLA SUA GENERAZIONE. FU MIO AMICO E COLLEGA AL QUOTIDIANO “PAESE SERA”. QUELLO CHE PIÙ DI TUTTO CI AFFRATELLAVA ERA CHE NÉ IO NÉ LUI FACEVAMO PARTE DELLA SCHIERA DI GIORNALISTI COMUNISTI. DOPO ESSERMENE ANDATO DA 'PAESE SERA', NON L’HO MAI PIÙ SENTITO. NATURALMENTE SAPEVO DI LUI, OLTRE CHE LEGGERE QUASI TUTTI I SUOI LIBRI. SEPPI SUBITO DELLA MALATTIA CHE…" -

Caro Dago, sarà stato il 1975 o il 1976 quando Daniele Del Giudice, che era mio amico e collega al quotidiano paracomunista romano “Paese Sera”, ruppe il rapporto con sua moglie, uscì di casa e per un paio di mesi rimase ospite a casa mia. Alla sera lui che cucinava benissimo si apprestava ai fornelli, io mettevo in tavola.

Una volta che venne a cena un giornalista esperto di cinema, mi accorsi che guardava con sospetto alla “strana coppia” che io e Daniele costituivamo. Quello che più di tutto ci affratellava al giornale era che né io né lui facevamo parte della schiera di giornalisti comunisti o comunistizzabili che costituivano il 95 per cento del giornale.

Daniele non era comunista né anticomunista né acomunista, era “altrove” con tutto sé stesso e innanzitutto con la sua maniera (già allora molto creativa) di intendere la scrittura su un giornale di carta. Quanto a me ero già notevolmente anticomunista, tanto che facevo parte di quella redazione di “Mondoperaio” (la rivista mensile del Psi ai tempi di Bettino Craxi) che stava lanciando un’offensiva culturale contro l’egemonia del Pci a sinistra.

Quando alla direzione del “Paese Sera” arrivò Aniello Coppola, un giornalista intensamente comunista ma immensamente leale sul piano intellettuale, proprio noi due ebbe in simpatia. E ci affidò un lavoro che dividevano al modo di una mezzadria. Curavamo entrambi la terza pagina del giornale, nel senso che una settimana io e una settimana lui la impaginavamo, editavamo i pezzi, li titolavamo.

Una settimana io e una settimana lui scrivevamo pezzi da terza pagina, pezzi ampi e dunque fra i più “liberi” del giornale. Io mettevo in pagina i suoi pezzi, lui metteva in pagina i miei. Una volta gli tagliai un capoverso di una decina di righe per impaginare meglio il tutto; Daniele se ne risentì.

Non ce la facevo proprio a lavorare per un giornale così compattamente filocomunista. I dettagli non contano, a fine settembre del 1978 rassegnai le dimissioni. Non mi pare che Daniele nell’occasione mi mandasse un saluto o un augurio, probabilmente giocava negativamente tra noi due quell’avere io amputato un suo testo di una decina di righe, che lui aveva tutto il diritto di reputare sacre.

Daniele rimase ancora un paio d’anni al “Paese Sera”, solo che lui era davvero “altrove”. Stava covando il mestiere che era irresistibilmente il suo - il mestiere di scrittore, che in lui era una seconda pelle o forse la prima pelle - e dov’era dieci anni avanti rispetto a tanti di noi. Lessi con ammirato sbalordimento quel suo esordio fulminante, ”Lo stadio di Wimbledon”, dove lui così magistralmente rievocava il destino del massimo non-scrittore italiano del Novecento, un Bobi Bazlen di cui io nel 1982 non sapevo quasi nulla.

Eccome se c’era un mistero attorno a Bazlen. Eccome se c’era un mistero attorno a Daniele, di cui non so dire che cosa fosse divenuto negli anni Ottanta e Novanta e a parte essere il migliore scrittore italiano della sua generazione. Non l’ho mai più sentito dopo essermene andato dal “Paese Sera”. Naturalmente sapevo di lui, oltre che leggere quasi tutti i suoi libri. Seppi subito della malattia che precocissimamente lo rubò a se stesso e che adesso gli ha tolto la vita. Addio, Daniele





GIAMPIERO MUGHINI