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 2021  settembre 02 Giovedì calendario

L’Infinito prima dell’Infinito, enigma leopardiano

Ritornano due abbozzi della poesia più nota della letteratura italiana, L’infinito. E riaffiorano con una domanda: «Sono davvero dei falsi?». È l’interrogativo posto dal filologo Pasquale Stoppelli in un saggio pubblicato nell’ultimo numero della rivista «Prassi ecdotiche della modernità letteraria». Di cosa si tratta? Si tratta di una carta già nota agli studiosi che contiene un testo in versi e una prosa concordemente ritenuti apocrifi dal 1966, da quando cioè se ne occupò il celebre studioso Sebastiano Timpanaro, uno dei maggiori filologi di Leopardi. Il documento (che chiamiamo F) è detenuto oggi in affidamento dalla casa d’aste Finarte e grazie al direttore Fabio Massimo Bertolo, che ne ha messa a disposizione la riproduzione, Stoppelli può ritornare sulla questione con precisi riscontri. L’idillio è tramandato da due autografi conservati nella Biblioteca Nazionale di Napoli (noto come An) e nell’Archivio del Comune di Visso (Av). F è una carta con intestazione della Camera Apostolica, contenente in origine una nota di pagamento e poi riutilizzata per trascrivervi su un lato i primi 11 versi dell’Infinito fino a «comparando» in una stesura parziale che precederebbe quelle di An e Av. 
Sul retro della carta, che in filigrana reca la data del 1817 (ovviamente compatibile con il 1819, anno della composizione), si leggono nove righe in prosa che si presentano come un appunto preparatorio in vista della successiva elaborazione in versi. Le righe corrispondono esattamente alla versione poetica fino a «comparando»: «Caro luogo a me sempre fosti benchè ermo e solitario, e questo verde lauro che gran parte cuopre dell’orizzonte allo sguardo mio. Lunge spingendosi l’occhio gli si apre dinanzi interminato spazio vasto orizzonte per cui si perde l’animo mio e nel silenzio infinito delle cose e nella amica quiete par che si riposi se pur spaura. E al rumor d’impetuoso vento e allo stormir delle foglie delle piante a questo tumultuoso fragore l’infinito silenzio paragono». Il documento è legato al nome di Giuseppe Cozza Luzi, abate del monastero basiliano di Grottaferrata e poi vicebibliotecario di Santa Romana Chiesa nonché grecista di discreto valore: fu lui ad avere per primo tra le mani quella carta e a segnalarla in un articolo del 1898 tra altri materiali leopardiani. Fu il silenzio fino al 1951, quando un altro leopardista illustre, Giuseppe De Robertis, diede notizia del ritrovamento sul settimanale «Tempo» riconoscendovi la mano di Leopardi. Si arriva così a Timpanaro che nel 1966, essendo nuovamente scomparsa la carta, dovette accontentarsi delle riproduzioni fotografiche pubblicate sul «Tempo» da De Robertis per darne una sua valutazione. Che fu negativa, nella convinzione che il Cozza Luzi, attraverso una serie di materiali apocrifi, volesse rafforzare l’immagine di un giovane Leopardi cattolico e legittimista: un’idea in chiave religiosa contro cui il marxista Timpanaro non esitò a scagliarsi accusando il Cozza di essere un divulgatore seriale di falsi. 
Nel dare la sua opinione sulla carta incriminata, ora reperita nel fondo di un privato e affidata a Finarte, Stoppelli sgombra il campo da ogni lettura di tipo ideologico limitandosi (si fa per dire) alle ragioni di ordine filologico. E proprio in questa prospettiva si sofferma in primo luogo sull’abbozzo in prosa confutando alcune delle osservazioni di Timpanaro riguardanti la grafia. Così come si dissocia dall’idea che si tratterebbe di una ricopiatura da una nota precedente. Dissente inoltre da quelle che Timpanaro individuava come incongruenze di ordine concettuale o goffaggini, tra cui la ripetizione di «orizzonte» con due accezioni diverse. Secondo Stoppelli, piuttosto, l’ipotesi che siamo di fronte all’autografo leopardiano di un testo in fieri troverebbe conforto nell’accostamento di soluzioni aperte, veri e propri doppioni, su cui l’autore avrebbe poi dovuto operare una scelta. I casi sono due: «interminato spazio vasto orizzonte» e «nello stormir delle foglie delle piante», che non possono essere considerate espressioni uniche neppure immaginando il «falsario più scombiccherato». Certo, anche questa ipotesi di Stoppelli si presta a qualche contestazione, visto che mai, nel modus scribendi di Leopardi, ci si trova di fronte a esempi analoghi di alternative lasciate aperte. 
Molto interessante è l’analisi che Stoppelli conduce sugli echi o i calchi della tradizione poetica dentro i canti leopardiani. Tessere «rubate» ad altri poeti grandi e piccoli: come il «sempre caro» presente già in Francesco da Lemene, Guidi e Cesarotti, o l’«ermo colle» reperibile in Caro, Tansillo, Galeazzo di Tarsia, oppure ancora l’«ultimo orizzonte» di Metastasio… Sono «materiali di riporto» che, riutilizzati da Leopardi in un nuovo insieme, prendono una luce straordinaria dando l’impressione di un’originalità assoluta. «Sta anche in questo – scrive Stoppelli – il miracolo della poesia di Leopardi». E se è così per i testi noti, questo vale anche per il nostro abbozzo, dove risalta una stessa prodigiosa memoria, riconducibile al Tasso, ma non solo, come la coppia «ermo e solitario» o il «rumor d’impetuoso vento». «Verde lauro» appartiene alla tradizione petrarchesca. Stoppelli parla opportunamente di un «oggetto prezioso che viene alla luce incrostato di materiale vile». È il caso, per esempio, del bellissimo endecasillabo «nel silenzio infinito delle cose» dal sapore tassiano («tutte in alto silenzio eran le cose»), difficile da immaginare come il prodotto di un falsario, che sarebbe dunque capace di riprodurre, in una prosetta, lo stile di Leopardi e di imitarne la grafia. Così Stoppelli, che precisa la vicinanza dei versi dell’abbozzo, pur ancora provvisori, con la redazione dell’abbozzo napoletano. E se c’è qualche imperfezione, è perché non si può pretendere che una poesia, per quanto concepita da Leopardi, nasca già perfetta. Quanto alle contestazioni sulla grafia, il filologo invita a mettere a confronto il corsivo dell’abbozzo con quello dell’autografo dello Zibaldone per avvalorare l’idea di una grafia solo apparentemente estranea alla mano di Leopardi. Infine, qualche dubbio in più pone l’autentica, posta sul recto della carta, della sorella di Giacomo, Paolina: «È il Carattere di Giacomo / Paolina Leopardi». Sull’autenticità di questa lo stesso Stoppelli esprime qualche dubbio. Non tutte le perplessità vengono allontanate. Per esempio, un paio di varianti presenti nei versi dell’abbozzo e introdotte nell’autografo napoletano con correzioni risalenti al 1820 farebbe supporre che, se la nostra carta fosse davvero la prima attestazione della poesia, Leopardi avesse recuperato vecchie soluzioni, il che contrasta con le sue abitudini in genere progressive. Intanto, accontentiamoci di questi risultati. La filologia non è una scienza esatta, diversamente dalla matematica a volte è un’opinione.