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 2021  settembre 02 Giovedì calendario

Efisio il Pietrificatore e Napoli

C’è qualcosa di tenero, ingenuo e infantile nel modo peculiare, unico probabilmente, in cui si vive la morte in questa città. Non c’è luogo in cui si resti più attaccati alla vita, nel mondo occidentale. La sopravvivenza e la lotta per mantenerla è una cifra della vita sociale e attraversa la storia di Napoli e del suo popolo, rumoroso e straccione, lazzaro e disperato e tuttavia immerso nella speranza del miracolo, dell’evento che possa dare una svolta in meglio all’esistenza, di risolvere in un colpo le traversie e le difficoltà del perenne arrangiarsi. 
I napoletani restano in commercio costante con l’aldilà. Lo hanno sempre fatto, ancora prima del cristianesimo. Culti scomparsi nei paesi d’origine venivano ancora praticati a queste latitudini, e templi venivano edificati sulle rovine di altri templi, e poi chiese e catacombe. Che fosse Artemide, Amenophi o San Gennaro poco cambiava: si chiedeva provvidenza, presenza nel mondo, interventi salvifici e pane, se non ricchezza almeno nutrimento. 
A ben pensarci, nulla di particolarmente spirituale o verticale: piuttosto la necessità di immanenza, della presenza all’interno della vita quotidiana di elementi che fanno parte di un mondo ipotetico e immaginario, ma non per questo meno reale. 
La materialità della morte, quindi, è una necessità di questo popolo. Abbiamo avuto, e probabilmente abbiamo, bisogno che la fine non sia che un semplice, banale passaggio di stato e che non costituisca un termine. Non solo chi muore non scompare, ma continua ad abitare, a intervenire nelle situazioni critiche di una comunità fragile e in pericolo. Napoli, in quanto perennemente moribonda e tuttavia eterna, è sospesa tra la vita e la morte come tra il fuoco del vulcano e l’acqua del suo mare. Un processo dialettico che non genera sintesi ma una condizione di interminabile precarietà. 
In questa prospettiva si inquadrano tante evidenze. Facile parlare delle Fontanelle o di S. Maria del Purgatorio ad Arco, con i teschi consumati dal tocco di centinaia di generazioni in cerca di aiuto soprannaturale; e facile parlare del sangue di santi, non solo Gennaro ma anche Alfonso, Giovanni, Patrizia, sangue vivo a dimostrazione dell’interesse beato verso la cittadinanza; facile fare riferimento alle reliquie e ai resti di monaci, alle catacombe e ai cimiteri monumentali. Ma non è solo questo che rappresenta plasticamente il rapporto fisico dei napoletani con la morte. I colatoi, gli ipogei, gli interramenti finalizzati alla conservazione dei corpi sono in tutta la città. La morte è un evento da superare, e qualsiasi modo aiuti a farlo è il benvenuto. 
Per tutto questo, l’incontro avvenuto alla fine dell’ottocento tra il medico sardo Efisio Marini, il Pietrificatore, e questa città può dirsi necessario. Era l’unico luogo in cui le pratiche affinate con lo studio e l’amore per questa macabra materia non sarebbero state riconosciute come limitrofe alla magia nera e alla necrofilia. Nelle mani di Marini – al quale viene ora dedicato un nuovo studio – la morte diventa arte, ricerca della bellezza e superamento della corruzione. La sua è una figura sospesa tra la scienza e l’occulto, tra il mistero e l’esperienza, con elementi artistici di straordinario interesse. Va inquadrato in un pantheon assai ristretto, che comprende per esempio Raimondo di Sangro principe di Sansevero, e che perciò, proprio come il principe alchimista, sfugge a ogni stereotipo. Uno scienziato, ma anche un raffinato artista, che ebbe come materia tra le mani il corpo umano che materia resta, senza perderne la sacralità ma anzi nobilitandone l’essenza, fissandone nel tempo e salvando dalla corruzione la flessibilità e la morbidezza. Carne, ossa, organi interni mantenuti com’erano in barba alla natura, ma anche rimodellati e cambiati tanto da farne tavolini e soprammobili, eleganti e sottilmente ironici, come a dire: qualsiasi cosa crediate di essere, ecco quello che in realtà siete. Anzi, di meno: perché probabilmente a voi che osservate non toccherà un Efisio Marini che vi consegni all’eternità fisica, certa e visibile, contrapposta all’immaginazione. 
A ben vedere, Napoli ed Efisio Marini si sono cercati e ritrovati. Sarebbe stato così in ogni tempo ma ancora di più lo è stato in quell’epoca in cui la città guardava alla morte in maniera divergente dal buio neogotico del settentrione del continente, e cioè come a un evento della vita che non avrebbe cessato, ma solo cambiato le modalità di comunicazione tra le persone. 
E ironico è stato passare alla storia come «Il Pietrificatore», per uno che invece ha contribuito a rendere morbido e gentile il passaggio, e immanente la presenza della sua materia. Come se i morti dormissero, in realtà. In attesa, se non di un risveglio, perlomeno di una speranza.