la Repubblica, 2 settembre 2021
Il Far West dell’editoria
Scrivo libri. Parte del mio reddito è frutto del cosiddetto diritto d’autore. Tra i 78.279 volumi stampati nel 2019 in Italia ce n’è anche uno mio, forse un paio. Comunque, prezzo di copertina: 16 euro. Stampato presso Grafica Veneta S.p.A. di Trebaseleghe, provincia di Padova, la più importante azienda italiana nella stampa di libri. Quella al centro dell’inchiesta su caporalato, violenze e minacce ai lavoratori pachistani della ditta a cui era appaltato il processo di confezionamento dei pacchi di libri.
Su Repubblica (28 luglio) è intervenuto lo scrittore Maurizio Maggiani: «Ho schifo, sì, ma tanto per cominciare ho schifo di me stesso. Di me che non ho avuto mai cura di chiedermi chi li avesse materialmente fatti i miei libri». La reazione degli editori legati a Grafica Veneta è stata perlopiù cauta. Ha reagito però il Papa, rispondendo direttamente a Maggiani («Credo che pubblicare scritti belli ed edificanti creando ingiustizie sia un fatto di per sé ingiusto»); hanno reagito pochissimo le autrici e gli autori: qualche voce più netta (Massimo Carlotto, il deputato Pd Alessandro Zan), altre prudenti.
Mentre i sindacati animano un presidio fisso davanti alla sede di Grafica Veneta, noi che facciamo? Noi che scriviamo libri e non sappiamo cosa c’è dietro alla copia che arriva in libreria. «Non sei tenuto a saperlo», mi rassicura un editore che resta anonimo: «E nemmeno io come editore riesco a verificare tutti i passaggi, o a controllare il lavoro di una cooperativa che tra l’altro lavora anche con altri stampatori».
«Il punto è proprio questo», mi spiega Loris Scarpa, segretario generale della Fiom di Padova: «La deresponsabilizzazione. Lo sfruttamento si annida soprattutto nelle filiere lunghe e frammentate. E dove si esternalizza. Nel caso della ditta legata a Grafica Veneta, i lavoratori sono richiedenti asilo, perciò massimamente ricattabili. Se anche nel mondo culturale si sfrutta per competere sul mercato, vuol dire che il sistema è marcio. A molti livelli».
Quando, nel giugno scorso, alcuni lavoratori del più grande magazzino di libri italiano hanno scioperato per chiedere maggiori tutele a C&M Books Logistics, migliaia di titoli hanno tardato il loro arrivo in libreria. «Per le aziende di distribuzione libraria lavorano cooperative evanescenti, che cambiano di anno in anno, che fanno promesse bugiarde e intanto impongono una quotidianità intollerabile. Undici ore di lavoro, sabato, domenica e notturni compresi, senza adeguamento salariale», mi dice lo scrittore Gabriele Dadati, che nei giorni del sit-in ha raggiunto Stradella per parlare con i lavoratori. Stupiti che uno scrittore fosse lì.
C’è da domandarsi se la presunta nobiltà dell’oggetto libro non ci abbia fatto trascurare completamente la trasparenza del piano produttivo. «Perché non chiedersi anche delle cartiere? Non sempre la carta è realmente certificata», mi dice Francesco Pedicini, socio di Edizioni Atlantide e collaboratore di Arti Grafiche La Moderna. «Perché un editore abbia un determinato prezzo di stampa, spesso molto al ribasso, qualcosa che non va in qualche passaggio deve esserci. La verità è che abbiamo un po’ chiuso gli occhi su troppi aspetti». Cerco al telefono Mattia Cavani: fa parte di una associazione, Redacta, che riunisce lavoratori freelance dell’editoria, nel segmento redazionale, come lui. Mi riassume il quadro in tre punti: «Gli editori negli ultimi anni hanno spinto progressivamente verso una compressione delle tariffe del cottimo (la modalità di pagamento prevalente); un aumento dell’intensità del lavoro per chi è inquadrato con compensi fissi mensili; un trasversale risparmio sui costi contributivi». I dati di un ampio e recente sondaggio anonimo sul lavoro editoriale mostra una sproporzione marcata fra freelance (oltre l’80% degli intervistati) e lavoratori dipendenti. Gli accordi stipulati tramite contratto o lettera di incarico riguardano poco più della metà dei casi; spesso ci si limita a un accordo verbale (11,7%). Il 55% degli intervistati dichiara un reddito inferiore ai 15mila euro. Sopra i 20mila euro, l’orario di lavoro supera le 42 ore settimanali. Tariffe medie orarie basse: da un massimo di 13 euro a un minimo di 6. Diffusa illegalità sui tempi di pagamento: tra i 60 e i 120 giorni. «L’esternalizzazione del lavoro redazionale – impaginazione, editing, correzione bozze – rende ancora meno solida la posizione di chi lavora per gli editori sul piano del contenuto», spiega Cavani. I famigerati service. «L’altra parola chiave – aggiunge Pedicini – è stage. Una rovina. E l’eccessivo utilizzo delle cooperative a tutti i livelli non aiuta» Un’ulteriore indagine elaborata dalla Federazione Unitaria Italiana Scrittori, a partire da dati raccolti nel 2016 mostra come il 59,8% di coloro che svolgono lavori nel campo della scrittura creativa non ha guadagni che provengano dalla scrittura (circa il 47% ha pubblicato senza contratto: niente anticipo, e niente diritti d’autore). «Ma a differenza di autori e editor, gli altri lavoratori dell’editoria non pensano che lavorare nel mondo dei libri sia di per sé una ricompensa» mi dice Dadati. «La retorica sulla “fortuna” di lavorare nel mondo della cultura, i corsi di editoria frequentati sull’onda del sogno di fare libri occulta verità sgradevoli che toccano tutte le posizioni. È un Far west senza controlli. Il contratto a tempo indeterminato, a ogni livello, è una rarità; il nero abbonda», mi racconta Martina Testa, traduttrice e editor con esperienza ventennale. «Le associazioni di categoria degli editori italiani dovrebbero prendere posizioni nette. La rappresentanza sindacale è praticamente nulla, così come le tutele. E quasi nessuno se la sente di chiedere condizioni migliori, nemmeno un semplice aumento».
È la logica illogica dell’auto-sfruttamento: scrittori, editor, redattori, traduttori convinti che «fare sacrifici» sia parte del pacchetto. Chiedo a Marco Zapparoli, fondatore di Marcos y Marcos e presidente dell’Associazione degli editori indipendenti, se c’è qualcosa che si possa fare. «La nostra battaglia sul prezzo fisso del libro non è stata condivisa da tutti, ma è un vantaggio per l’intera filiera, per una maggiore equità remunerativa. Non basta. Gli aiuti, i sostegni statali in questo settore sono pochi. Dare incentivi e sgravi a chi sceglie di assumere sarebbe importante. Anche per riequilibrare un processo di concorrenza al ribasso che incide sulla qualità dei libri».
Simona Baldanzi, scrittrice attenta al tema del lavoro, nata in una famiglia toscana di operai del tessile, mi racconta che al momento della pubblicazione del suo primo libro volle andare nella tipografia che lo stampava: «Raggiunsi in motorino uno stabilimento tipografico dei Castelli Romani. Ricordo le copie con le pagine non ancora tagliate, l’odore forte di inchiostro, e il calore soprattutto, come di una forma di pane appena sfornato. Volevo conoscere tutte le fasi della produzione: da figlia di operai so bene che un libro non è diverso dal paio di jeans che cuciva mia madre alla Rifle».