Linkiesta, 2 settembre 2021
La pretesa di avere un giorno in cui non si può parlar male degli altri
Poiché la cancel culture non esiste, l’altra sera un tizio semifamoso ha spiegato che il tweet che stava scrivendo per dire quanto faccio schifo lo stava scrivendo perché «chi ti offre lavoro si faccia delle domande». Poiché non è la prima volta che qualcuno sull’internet cerca di farmi licenziare (in genere ignorano che lavoro io faccia: sono sempre lettori forti), poiché non è una novità, oggi non parleremo di questo ma del tema interessante che è ragione della sua ira funesta.
Che cos’hanno in comune una fumettista trans che viene intervistata da un giornale, una cancellettista che viene invitata a parlare a un festival, e una giornalista che viene fotografata da un rotocalco il quale svela che è incinta? L’illusione che la nostra storia debba essere raccontata nei nostri termini.
È possibile che accada, certo, ma è una fortuna. E, in genere, neppure se sei Christopher Hitchens avviene sempre, tutto il tempo, in ogni circostanza. Ci sarà sempre qualcuno che dice cose che ti riguardano non quando o come vorresti tu che venissero dette, ci sarà sempre una versione di te, in giro, che non è quella che avresti messo in giro tu.
Se quella versione di te vìola i codici di legge, puoi rivolgerti ai tribunali (in Italia non ne vale la pena, ti danno quattro spicci dopo cent’anni, ma c’è una linea di pensiero secondo la quale comunque bisogna denunciare chiunque osi dirti cose sgradevoli, per educarlo; beati loro, io tutto ’sto tempo da buttare mica ce l’ho).
Siccome però la soglia della nostra suscettibilità è molto più bassa di quella che i codici di legge ritengono diffamazione, la via breve è indignarsi sull’internet. Anche senz’arrivare ai vertici del signore che citavo in apertura – quello che vuole la mia testa perché come-mi-permetto – ci si rivolge ai social per dire che è uno scandalo, per fomentare sdegno, per ristabilire che la storia è mia e la racconto io. Tutti ti daranno ragione, nessuno si prenderà il disturbo di dirti: ma il mondo non funziona così, piccina.
Il primo caso è di qualche mese fa. Una fumettista trans viene intervistata dalle pagine bolognesi di Repubblica. L’intervistatrice riporta un’ovvietà: prima era uomo (fosse stata sempre donna, non avrebbe transitato da una parte all’altra). Poiché la logica e la militanza postmoderna non vanno tanto d’accordo, dalle modalità comunicative contemporanee è previsto che tu privi il lettore di quest’informazione. Non devi osare ferire il soggetto svelando la sua identità defunta. Di una donna trans – nel caso particolare, una il cui essere trans ne costituisce oltretutto l’intera poetica, non una che tenti di tenere nascosto questo dettaglio – devi implicare che la transizione sia avvenuta dall’incarnazione in cui era, boh, puro spirito, forse.
La fumettista è meno talebana del tizio che citavo in apertura e, fotografando l’intervista, cancella il nome dell’intervistatrice dicendo che il suo è un punto di principio e non una richiesta della testa della giornalista. Tuttavia scrive le illusorie (illusorie per lei stessa) parole «non ho MAI dato il permesso a nessun* di parlare del mio nome precedente».
Ma, ragazza mia, la gente mormora (falla tacere praticando l’allegria, diceva uno che la sa lunga) senza chiederti il permesso. Puoi restare a origliare dietro tutte le porte da cui esci, e questo non impedirà a chi è rimasto dentro di parlare di te in termini che non sono quelli che sceglieresti tu.
Un’intervista non è un comunicato stampa, e non è neanche un memoir che pubblichi tu: è una conversazione il cui miglior risultato possibile è un compromesso tra le cose che hai detto e il modo in cui quello che scrive le ha recepite. È una forma lieve di violenza; se si vuol vivere nel mondo di unicorni in cui gli altri ci chiedono il permesso prima di dire di noi cose non lesive dei codici di legge, è bene non dare interviste.
Il secondo caso è della settimana scorsa. Una cancellettista che è solita raccontare su Instagram la sua storia di sopravvissuta a una relazione con un prepotente s’indigna perché un festival che l’ha invitata a parlare la indica nel programma come «survivor» (in inglese fa più fino).
«Non è il primo comunicato che leggo in cui io vengo descritta come survivor. E basta. E questo mi fa contorcere le budella. Io sono una survivor ma non è una professione. Non è un lavoro. Non è una qualifica. Non è la mia caratteristica primaria. Io non vengo invitata sui palchi perché sono una sopravvissuta»: ma, ragazza mia, se chi t’invita ti indica nel programma di sala come «sopravvissuta», che elementi hai per dire che non t’invita in quanto sopravvissuta?
Sono felice che il cancellettismo stia arrivando alla conclusione che essere sé stesse non è una qualifica; però, forse, se impiantiamo tutta la nostra pubblica retorica sulla nostra esperienza, e più ancora sul fatto che conta quel che sei e non quel che sai, quel che t’è capitato e non quel che hai studiato, poi è complicato argomentare che gli altri devono parlare di noi nei termini che vogliamo noi, e che i termini che vogliamo noi non sono però quelli che abbiamo fin lì utilizzato noi.
E veniamo al caso del tizio in apertura. Anzi: di sua moglie. Che il 15 giugno posta su Instagram il suo sdegno perché un rotocalco dice che è incinta. La cosa passa inosservata: la signora è una che si sdegna con una certa facilità. Passano due mesi, e l’altroieri pubblica la foto in uscita su un altro rotocalco, che la dà al quinto mese. Questa volta, invece d’indignarsi, li ringrazia: «Grazie @chimagazineit mi avete fregata».
Ma, se è al quinto mese, i tapini accusati a giugno di mettere «in prima pagina una notizia senza verificare chiamandomi» avevano detto il vero. Forse, nel post in cui annuncia quello che sarò così banale da chiamare «il lieto evento», la signora potrebbe contestualizzare.
Sì, era vero anche allora, mi arrabbiai perché avevo per prudenza deciso di aspettare a dirlo.
Sì, pretendo di dire le gravidanze mie coi tempi miei, embè?
Sì, all’epoca sarei potuta stare zitta ma la mia religione mi vieta di non fare una pubblica tragedia di qualunque inciampo.
La signora invece fa finta di niente, e io faccio notare questa cosa in un tweet. Poiché abitiamo a Gilead, a redarguirmi arriva il marito. Che, in un crescendo di confusione mentale, dice che sto diffondendo dati sensibili (cioè: sto scrivendo su un social che la signora ha annunciato la gravidanza su un altro social), ledendo così la deontologia (delle ostetriche, immagino), e che deve attivarsi l’Ordine (dei medici, o forse degli psichiatri).
Ora, a prescindere dalla voglia che pervade i meno intellettualmente attrezzati di questo tempo di umiliarsi chiedendo teste che non si è in grado di ottenere (ci leggevano Alice nel paese delle meraviglie e c’immedesimavamo nella regina, solo così si spiega quanto siamo diventati mitomani), vorrei tornare per un momento su Instagram.
Dove, mentre l’uomo di Gilead m’insolentiva su Twitter, la donna di casa si prendeva il consono ruolo della dolente, sottolineando che «proprio oggi» io avevo deciso di gettare fango, gettare veleno, entrare a gamba tesa (sì, le usa tutte: le frasi fatte, come le camicie bianche, non sono mai troppe).
Ma, considerato che diceva d’aver fatto il test di gravidanza prima dell’uscita del rotocalco cattivo (quello di giugno), cosa rendeva l’altroieri speciale, una giornata la cui sacralità non avrei dovuto osare irridere? Il rotocalco buono? I cuoricini di Instagram?
Forse l’unico modo di uscire da questo delirio in cui c’illudiamo d’aver diritti sull’autofiction è istituire un pubblico calendario. Una volta l’anno, per ventiquattr’ore, nessuno ha diritto di parlare di noi se non nei termini che piacciono a noi. Se avessi saputo che martedì era il giorno speciale – proprio martedì, non il giorno del parto, non quello del test di gravidanza, proprio martedì, il giorno speciale del rotocalco buono – non mi sarei mai permessa.
Il governo si attivi, per favore. Un giorno per ogni cittadino. Certo, un giorno è poco, ma è comunque un giorno in più di quello che ci spetta adesso.