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 2021  settembre 02 Giovedì calendario

la vita agra di Bianciardi

Milano viveva la frenesia del miracolo economico e veniva raccontata, da destra e da sinistra, con esaltata eccitazione. Davanti alla Stazione Centrale veniva tirato su il Pirellone che diventava il simbolo di tanto fervore (c’è sempre un grattacielo pronto a essere icona delle glorie di Milano). Intanto, uno scrittore arrivato dalla Maremma, Luciano Bianciardi, scriveva in una lingua “dotta, popolare, carognona” una insormontabile invettiva contro la città: il romanzo La vita agra, che racconta di un anarchico che voleva far saltare per aria il “torracchione” milanese della Montecatini. È un successo immediato e inaspettato. “È la storia di una solenne incazzatura scritta in prima persona singolare”, spiegava l’autore, che dopo qualche anno di fama torna alle sue inquietudini.
È così inattuale, Bianciardi, sempre fuori luogo e fuori contesto, negli anni 50 e 60 della sua breve vita agra, da risultare infine lucido sull’allora e addirittura profetico sull’oggi. Incorreggibile provinciale, insegnante, bibliotecario, attivista culturale, fugge nel 1954 dalla sua Grosseto-Kansas City odiata e rimpianta per tutta la vita. “Piuttosto sventatamente partii per Milano, e mi bastò un mese per capire in che guai mi ero messo. Tutti i difetti dell’industria moderna e tutti i difetti del partito comunista”, scriveva a un amico nel 1964, “si mischiavano a formare un casino credo unico al mondo”. Controcorrente e anche contro se stesso. Lascia la Maremma e la moglie e va a lavorare in una nascente casa editrice, dove era stato chiamato da un miliardario antipatico e geniale, Giangiacomo Feltrinelli, dopo aver realizzato con Carlo Cassola un’inchiesta (I minatori della Maremma) sulla vita di chi lavorava nelle miniere della Montecatini. Il 4 maggio 1954 nei cunicoli della Ribolla muoiono 43 minatori. È per vendicare la loro morte che il protagonista della Vita agra vuole abbattere il “torracchione”. Vendetta mancata.
Milano viveva (anche allora) un momento magico. Si abbatteva e si ricostruiva. Con la scusa di sanare le ferite dei bombardamenti, si buttava giù anche ciò che non era stato bombardato, si allargavano vie, si raddrizzavano strade, si inventavano brutte piazze, si edificavano palazzi, in periferia si costruivano le Coree per chi arrivava dal Sud o dalle Venezie con la valigia di cartone. A Milano le industrie sfornavano acciaio e macchinari, auto e televisori, lavatrici e frigoriferi. Nascevano il Giorno di Enrico Mattei e Gaetano Baldacci, il Piccolo Teatro di Paolo Grassi e Giorgio Strehler, la Casa della cultura di Rossana Rossanda. Ma Bianciardi, con i suoi occhi disincantati e stranieri, vedeva l’omologazione, l’integrazione (che definiva “socialdemocratica”). Scriveva a un amico grossetano: “La gente qui è allineata, coperta e bacchettata dal capitale nordico, e cammina sulla rotaia, inquadrata e rigida”. Prevalente era la narrazione entusiasta del boom, sancito dal piano regolatore del 1953 di Giovanni Astengo, che disegnava la nuova città dando il via a quella che ancora si poteva chiamare “speculazione edilizia”. Quella Milano aveva (come oggi) tanti cantori. E un solo critico: Luciano Bianciardi, non addomesticabile, ribelle, malinconico, insofferente, disincantato. Non sopportava quello che Giorgio Bocca definiva “il patriottismo del miracolo”. Non sopportava gli intellettuali, gli scrittori, i giornalisti, gli artisti che “lavorano per la pubblicità di qualcosa”: “Questa non è la Milano che produce, ma quella che vende e baratta”.
Bisogna rileggere oggi il libro di Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, per capire la sorprendente, inattuale attualità di Bianciardi. Anche in politica. Nell’Italia bianca e democristiana, il suo mondo è inevitabilmente quello degli oppositori, della “gente che la pensa come noi, cioè i comunisti (anche senza tessera, la tessera non conta un accidente, anzi…)”. Ma il suo sguardo non tarda a fulminare i riti di partito e i suoi funzionari, che definisce “i preti rossi”. “Io sono anarchico nel senso che auspico una società basata sul consenso e non sull’autorità. Certi amici mi dicono: ‘Ma tu vuoi la luna, allora!’ e io rispondo sì: voglio la luna, non quella degli astronauti. Quella di Leopardi, come luna, grazie al cielo già ce l’ho”.
A Milano vive a Brera, allora quartiere popolare, dividendosi tra il bar Giamaica di mamma Lina e dei pittori scapigliati, e le misere camere affittate e spartite con giovani fotografi che si chiamavano Ugo Mulas, Mario Dondero. Frequenta le trattorie dove si può mangiare a credito, lo sferisterio di via Palermo dove si gioca alla pelota basca. Sempre senza soldi, dal lunedì al sabato lavora ferocemente (ancor più dopo il licenziamento dalla Feltrinelli) a tradurre libri, 120 in pochi anni, tra cui i due Tropici di Henry Miller. Solo la domenica si dedica ai suoi libri, una decina, tra cui Il lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960), La vita agra (1962). Lo aiuta Maria, giovane comunista che lascia il suo lavoro alla Cgil di Roma per raggiungerlo a Milano e stare al suo fianco anche quando la convivenza diventa difficile, quando i bicchieri di grappa giallina diventano troppi e minano irrimediabilmente il fegato. Bianciardi lentamente si uccide. “C’è chi sta male perché beve, ma lui beveva perché stava male”, dice a Corrias il suo amico Cesare Vacchelli. Inseguendo il mito di una vendetta mancata e impossibile, invece che il “torracchione” della Montecatini, Bianciardi abbatte se stesso.