il Fatto Quotidiano, 2 settembre 2021
La Serie A è in mutande
L’Inter campione d’Italia smantellata, costretta a vendere Lukaku e Hakimi. La Juve che regala Cristiano Ronaldo pur di liberarsi del suo stipendio. La Serie A in mutande, mai così povera. Ma anche 35mila ragazzini che smettono di giocare, 48mila partite non disputate, oltre 25mila persone, non calciatori, che perdono il lavoro. Così il Covid sta uccidendo il pallone. Non è più solo il grido disperato dei “ricchi scemi” del calcio, che da mesi battono cassa col governo: lo Stato non pagherà per i loro errori, ben precedenti alla pandemia, ma l’effetto del virus è stato devastante, a tutti i livelli. Adesso lo dicono i numeri. Quelli del “Report calcio” della Figc. Ogni anno la Federazione pubblica la nuova versione, ogni anno contiene dati peggiori. Stavolta però c’è una differenza: il Coronavirus. L’edizione 2021 è la fotografia della stagione 2019/2020, la prima colpita dalla pandemia, con il lockdown da marzo a maggio, lo stop dei tornei e poi la ripresa in estate. Il calcio italiano ne è uscito (ammesso che lo sia) stravolto: prima era un movimento decadente, che tra difficoltà e trucchetti tirava a campare. Ora è a un passo dal fallimento.
La vittoria di mancini & C.? Solo un sogno di mezza estate
Il trionfo della nazionale di Mancini agli Europei è stato solo un sogno di mezza estate, un miracolo, un’illusione. Agosto e il mercato più misero di sempre ci hanno riportato alla dura realtà di un campionato impoverito, quasi fallito. Le cifre pubblicate dalla Figc spiegano da dove viene la crisi e ne chiariscono la proporzione: nel 2019/2020 il sistema calcio italiano ha perso 829 milioni, più del doppio della stagione precedente (-392 milioni); i primi 5 top club (Juventus, Inter, Napoli, Milan e Atalanta) da soli hanno bruciato 370 milioni di euro. Chiaro che ora debbano sbaraccare. Negli ultimi anni costi e ricavi del pallone erano sempre stati due rette parallele, che correvano vicine, con un inesorabile sbilanciamento nei confronti delle uscite che continuava ad accrescere il debito ma anche a lasciare l’illusione di poterlo colmare. Il Covid ha spalancato questa forbice: oggi il pallone nostrano è un’industria che spende 4,2 miliardi l’anno e ne incassa solo 3,5. Così nessuna azienda può stare in piedi.
Pochi impianti e sponsor: la serie a non tira più
Le colpe, ovviamente, non sono solo del Coronavirus. Lo dimostra il fatto che la chiusura degli stadi, per cui i patron si stracciano le vesti e vorrebbero addirittura i ristori dal governo, ha inciso per “soli” 60 milioni di euro (saranno molti di più nel 2021, con una stagione intera a porte chiuse). La Serie A (B e C non stanno meglio) si crogiola da anni nei suoi soliti vizi. Infrastrutture vecchie e fatiscenti, quasi mai di proprietà e quindi per nulla redditizie: da noi gli investimenti sono fermi al palo, nel resto d’Europa si costruisce (non solo nella tanto decantata Inghilterra, in Russia e Polonia negli ultimi 10 anni sono stati inaugurati 39 nuovi impianti). Bilanci squilibrati, appiattiti sui diritti tv (34% del totale, l’unica entrata che i patron riescono a incassare facilmente), mentre latitano i ricavi commerciali da cui si deduce l’appeal di una squadra e di un torneo (solo 17%). Incredibilmente invece le spese continuano ad aumentare, in particolare quelle per gli stipendi, 1,6 miliardi ogni anno solo per pagare i calciatori. Anche per questo il presidente della Figc, Gabriele Gravina, ha appena introdotto il divieto di spendere più dell’anno precedente: una misura che non guarirà il paziente, gli impedirà di suicidarsi più rapidamente. Il Covid è stato la spallata finale a un sistema che era già sull’orlo del baratro. Non bastano più neanche le plusvalenze, maquillage contabile abusato da tutte le società: al giugno 2020 rappresentavano il 24% dei ricavi delle squadre, un totale di 738 milioni di incassi (per lo più) farlocchi, visto che la maggior parte di queste operazioni non hanno vero denaro alla base. Così i debiti dei club avevano sfondato la quota record di 4 miliardi già prima dell’epidemia, ora siamo a 4,7.
“Spariti” 245mila calciatori, soprattutto giovani e al sud
La pandemia ha ridimensionato le big, ma in Serie A si può sempre trovare un padrone pronto a ripianare i buchi, o qualcuno disposto a farti credito (ed è la ragione per cui tanti club tecnicamente falliti, non solo quelli italiani, continuano ad andare avanti, anche se prima o poi i nodi verranno al pettine). In ogni crisi, però, a pagare il prezzo più alto sono sempre i più deboli: i dilettanti, i settori giovanili, chi di calcio sopravvive ogni giorno. Nonostante il lockdown, Serie A, Champions League e i grandi tornei si sono conclusi regolarmente, ma nel 2019/2020 ci sono 47.825 partite ufficiali che non si sono mai disputate. Cancellate. I tesserati, che superavano quota un milione, oggi sono poco più di 800mila: spariti 245mila calciatori, la maggior parte tra i più giovani, soprattutto al sud (-10% Basilicata, -7% Abruzzo e Calabria, -6% Puglia). Ed è questa la base che alimenta il vertice della piramide, fino ad arrivare alla maglia azzurra, e che si sta assottigliando pericolosamente. Significa che a causa del Covid in Italia tanti ragazzi hanno smesso di giocare. E non hanno più ripreso. Così come non è detto che torneranno allo stadio i 4 milioni di tifosi rimasti a casa sul divano nel 2019/2020, anche ora che gli impianti sono stati riaperti (infatti in queste prime due giornate la capienza ridotta non è nemmeno stata riempita). Il settore produceva un indotto complessivo di 10 miliardi (circa lo 0,5% del Pil), oggi si ferma a 8,2; quasi 2 miliardi perduti, e anche l’occupazione attivata è scesa del 22%. Sono circa 24mila posti di lavoro che non ci sono più. È una parte d’Italia, non solo il baraccone della Serie A, ma una grande industria che si è fermata. Adesso il campionato è ripartito, la Nazionale di Mancini è campione d’Europa. Ma il calcio italiano non è mai stato così male.