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 2021  settembre 02 Giovedì calendario

La tassonomia delle crisi

Urge una tassonomia delle crisi industriali italiane. L’estate è calda. L’autunno sarà caldissimo. Nell’eterno presente italiano, la politica e il sindacato – senza particolari eccezioni, né nel governo né nel sindacato – stanno facendo quello che, negli ultimi trent’anni, hanno ripetutamente fatto: creano un tutto indistinto, rovesciano una massa di emotività sulle differenti situazioni, trattano ogni dossier come se fosse identico agli altri, caricano di irrazionalità tutte le vertenze, abusano della cassintegrazione nell’idea che l’importante è non chiudere mai e poi mai nessun impianto, propongono leggi basate sul meccanismo del recupero degli incentivi statali all’insediamento in caso di abbandono del suolo nazionale, una impostazione in cui basta un nonnulla per dare un profilo vessatorio che semplicemente spingerà gli investitori stranieri a considerare l’Italia, ancora di più, una terra ostile.
Nella notte nera, tutte le vacche sono nere. E, come spesso accade nel discorso pubblico italiano, non si capisce come sia possibile – se appunto tutto è crisi e non esistono una distinzione e una calibratura nel giudizio di una crisi rispetto all’altra – avere una visione coerente e non contradditoria di un sistema industriale nazionale che, negli ultimi riscontri statistici dell’Istat, ha comunque, a luglio, espresso un sorprendente aumento della fiducia, che ha raggiunto il suo apice: sia da quando – nel marzo 2005 – l’indicatore generale viene rilevato sia negli specifici segmenti del tessuto produttivo (manifattura pura e beni di consumo, beni strumentali e beni intermedi).
Le crisi annunciate
L’impianto di Napoli è della Whirlpool da trent’anni. Nel 2002 la Whirlpool progettò di chiuderlo. Negli anni successivi, ha pensato di farlo almeno un’altra volta. Due anni fa ha scelto la strada del non ritorno. Lo ha deciso. Lo ha comunicato. Ha usato tutti gli strumenti classici delle relazioni industriali italiane. Ha rimandato la chiusura: non ha mai detto che non lo avrebbe fatto. Ha scelto di allungare i tempi. Non per fare una riflessione strategica su una ipotetica non chiusura, come a Napoli e a Roma in tanti hanno fatto credere, soprattutto, ai lavoratori e alle loro famiglie. Soltanto per dare più tempo alla politica italiana e alle amministrazioni locali di provare a favorire una “reindustrializzazione”: trovare qualcuno che, a fronte di cospicui vantaggi fiscali e finanziari, rilevi l’impianto, assuma il personale, converta ad altro le produzioni. Non è successo. Probabilmente per la classe dirigente politica e sindacale italiana, impegnata a scagliarsi contro la “cattivissima” multinazionale che peraltro è stata coerente con quanto annunciato e ha allungato i tempi di chiusura dando spazio di manovra alla mano pubblica, sarebbe utile iniziare una riflessione sul perché, a Napoli e in centinaia di altri casi, la “reindustrializzazione” non si verifichi mai.
Le crisi rimosse
Da oltre dieci anni, la Fca ha considerato minore l’Italia nella sua strategia. Ha prima progettato Fabbrica Italia e poi l’ha abbandonata. Ha annunciato il polo del lusso Alfa Romeo-Maserati e quindi non l’ha realizzato. I governi Monti, Renzi e Letta non si sono opposti in alcun modo allo spostamento all’estero delle sedi fiscali e societarie delle imprese del gruppo. Fin dall’acquisizione di Chrysler, il gruppo rifondato da Sergio Marchionne ha avuto una radice identitaria, strategica e tecno-industriale nordamericana e ha sperimentato una crescente scoloritura europea e italiana. Adesso gli Agnelli-Elkann hanno conferito Fca alla neonata Stellantis. Quel che resta delle nostre élite politiche, economiche e sindacali è terrorizzato dalle scelte di Carlos Tavares, l’amministratore delegato portoghese di provenienza Psa: l’Italia non è più – negli stabilimenti e nel personale – “untouchable”, intoccabile. Per questa ragione, ha fatto quasi tenerezza la soddisfazione auto-consolatoria dei membri del governo Draghi e dei sindacalisti quando Tavares ha annunciato che la fabbrica di Termoli, in Molise, sarà convertita a giga-factory. Tenerezza perché, nelle loro reazioni, si percepiva il respiro corto per il salvataggio di una delle fabbriche più obsolescenti della vecchia Fiat e per la risoluzione del problema immediato dei 2.500 lavoratori salvati. Nessuna considerazione, però, sulla disorganicità di questa scelta – Termoli è una specie di piccola isola lontana – rispetto al resto del tessuto industriale italiano, per il quale la giga-factory avrebbe dovuto – secondo un alternativo criterio di razionalità economica – essere collocata in Emilia-Romagna, nuovo epicentro vitale e in fibrillazione del settore, oppure a Torino, capitale in disarmo dell’auto alla ricerca di una nuova identità e ora anche ferita nella sua emotività dalla decisione di Stellantis di mettere in vendita la palazzina di Via Nizza 250, dove ebbero l’ufficio Vittorio Valletta e Gianni Agnelli.
Le crisi da internazionalizzazione
La Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto, in provincia di Monza e Brianza, e la Gkn di Campi Bisenzio, vicino a Firenze, hanno tre elementi in comune. Il primo è il settore: l’automotive, un comparto in piena rimodulazione per la crescente integrazione verticale dei produttori tradizionali e per l’impatto durissimo sulla filiera della fornitura della transizione verso l’elettrico. Il secondo è il capitale straniero: la Gianetti Ruote è controllata dal Quantum Capital Partners, una società di investimenti tedesca, e la Gkn è una piccola consociata estera di un gruppo internazionale di proprietà del fondo inglese Melrose. Il terzo elemento in comune, che è diretta espressione del secondo, è la rapidità con cui i vertici delle due aziende hanno deciso e attuato la chiusura. In maniera efficacemente brutale. Senza alcun rispetto per le liturgie della rappresentanza e del dialogo con i sindacati e senza definire quello spazio temporale con cui, appunto, gli amministratori locali e i membri del governo possono attivare ipotetiche “reindustrializzazioni”. Una rapidità propria delle aziende che regolano i conti dall’estero (ne ha parlateo recentemente su queste pagine Fabrizio Onida). Chiariamoci: gli investimenti stranieri sono essenziali. Anche per la crisi di tanta parte dell’imprenditoria storica italiana che ha scelto di passare “al piano di sopra”, ossia dalle linee produttive delle fabbriche agli uffici delle holding finanziarie. Ma hanno questo svantaggio: la acefalia. La testa è altrove. Incidere con il bisturi lontano dal quartier generale è spesso facile per la capogruppo o per gli azionisti: è come bere un bicchiere d’acqua.
Le crisi infinite, perinde ac cadaver
Esiste un meccanismo silenziosamente collusivo fra sindacalisti, amministratori locali ed esponenti del governo (tendenzialmente, di qualunque governo) che ha un obiettivo unico: evitare sempre e comunque la chiusura di un impianto. Non importa quali siano le condizioni di mercato. Non importa quali siano le intenzioni del proprietario in uscita. Non importa quanto siano mutate le condizioni storiche che, magari oltre mezzo secolo fa, avevano portato alla fondazione di un insediamento industriale. I casi paradigmatici sono la antica Sicilfiat di Termini Imerese, la Alcoa di Portovesme e la ex Lucchini di Piombino. Auto e siderurgia. Il meccanismo comune è il seguente: chiusura dell’impianto, crisi sociale, mobilitazione cittadina, coinvolgimento delle autorità civili e religiose, scelta di non accompagnare in maniera ordinata la fine dell’attività produttiva, doloroso allestimento della commedia dell’arte della ricerca di un “investitore” che di solito compare allettato dall’idea di introitare denari pubblici sotto forma di euro a fondo perduto, di incentivi a tasso zero e di ammortizzatori sociali pesanti. La tentazione è, naturalmente, di scaricare sul bilancio dello Stato i costi sostanziali di una operazione di “reindustrializzazione” che, però, alla fine non si realizza mai. Il risultato è il limbo in cui tutti sanno che cosa realmente sta succedendo, ma nessuno lo dice.
Le crisi da contratto
L’Ilva è il punto di fusione del sistema italiano. Il paradosso è che la manifattura italiana ed europea, la cui domanda di acciaio negli ultimi sei mesi è cresciuta, si gioverebbe della produzione di Taranto, Novi Ligure e Cornigliano. Non succede. Perché l’Ilva ha un ciclo produttivo ridotto a poca cosa. E perché, soprattutto, esiste un disallineamento assoluto fra azionista privato (Arcelor Mittal, controllato dalla famiglia indiana Mittal) e azionista pubblico (il Mef, tramite Invitalia) che nasce dalla blindatura del contratto sottoscritto quando a Palazzo Chigi e al Mef c’erano Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri.
Il problema è, appunto, che gli spazi di manovra per il governo Draghi e per il presidente di Acciaierie d’Italia Franco Bernabè sono risicati. La guida operativa della società, da contratto, spetta all’azionista privato fino al 2022. Tutto il resto – policy pubbliche annunciate a favore della siderurgia in primo luogo – sono elementi che prescindono da quanto i Mittal, che ormai quasi un anno e mezzo fa hanno ritirato tutti i loro manager di levatura internazionale e successivamente hanno fatto uscire dal perimetro del bilancio consolidato la partecipata italiana, sono riusciti ad ottenere da avvocati che – appunto ai tempi del governo Cinque Stelle-Pd – hanno fatto, per i loro clienti, un eccellente lavoro di cura dei loro interessi.
Almeno finora, è questo lo stato dell’arte della più duratura, profonda e assurda fra le crisi industriali italiane.