Il Messaggero, 1 settembre 2021
Breve ritratto di Chris Donahue
La scena indecorosa dell’abbandono definitivo dell’aeroporto di Kabul da parte dell’esercito statunitense ha partorito un eroe: è il generale maggiore Chris Donahue, comandante della 82ma divisione aviotrasportata. È il marine che vediamo nella foto filtrata dalla luce verde di una telecamera per la visione notturna, mentre cammina sulla pista dell’aeroporto Karzai, fucile in mano, il volto contratto e la barba incolta, presumibilmente diretto verso l’aereo che sta per decollare dalla pista e dentro il quale lo aspetta l’ambasciatore Ross Wilson.
COORDINATORE
Non è un’immagine gloriosa, anzi è quella di una sconfitta. È per questo che il comando centrale degli Usa che l’ha scelta e diramata ai media di tutto il mondo ha voluto che il protagonista non fosse uno dei capi della missione, ma un graduato che viene dai ranghi, uno del quale i colleghi dicono: «Non chiede mai a un suo subordinato di fare quello che è in grado lui stesso di fare». Diplomato all’accademia militare di West Point, Donahue ha partecipato a diciassette missioni internazionali in ogni angolo del mondo nel quale l’esercito degli Stati Uniti è presente: dall’est Europa al Medio oriente, dal Pacifico meridionale all’Africa. Era assistente del comando centrale del Pentagono a Washington l’11 settembre del 2001. È stato tra i primi a partire per uno dei quattro turni di servizio ai quali è stato assegnato in Afghanistan nel corso degli anni, fino all’incarico tre settimane fa di coordinare le operazioni di evacuazione e il ritiro delle truppe. Donahue non ha il ringhio di un soldato d’assalto; ha una voce pacata e ferma che comunica la fedeltà al compito assegnato e la determinazione di portarlo a compimento. Esprime la perseveranza del militare da trincea, competente e mai rassegnato. L’eroismo che gli viene attribuito non è quello dell’azione, ma la solidità di un’immagine di forza e di affidabilità. Quella stessa immagine che l’epilogo della mezzanotte di lunedì 30 agosto all’aeroporto di Kabul ha contraddetto. È impossibile non cogliere l’intento polemico dietro la scelta di fare di lui l’ultima istantanea un po’ sbiadita di questi venti anni di intervento. E infatti quella immagine è stata già presa a bandiera da una fetta consistente di veterani di guerra e militari in divisa che non accettano la sconfitta, tantomeno il modo precipitoso con il quale i marines hanno lasciato l’Afghanistan, al costo altissimo di tredici vite di loro colleghi lasciate sull’asfalto dell’aeroporto di Kabul.
LA PROMESSA
La rete dei siti social pullula di grida di condanna dell’operato del governo Biden, della rabbia e dell’umiliazione di chi ha servito nelle missioni afghane negli ultimi due decenni e aveva creduto nella promessa di libertà e democrazia fatta al Paese mediorientale. La delusione dura da anni, come si vede dalle foto ripubblicate del segretario di Stato di Donald Trump, Mike Pompeo, che stringe la mano a Doha a un leader talebano, e dalle testimonianze di ex soldati che si sentirono traditi già dodici anni fa, quando Barack Obama trasformò la missione di guerra in una di assistenza strategica alle forze del governo Karzai. E la protesta tracima al congresso, dove il senatore Lindsay Graham chiede che gli Usa si impossessino nuovamente della base di Bagram, da usare in alternativa a Kabul per ultimare l’evacuazione. Altri due senatori, Sasse e Blackburn, vorrebbero la ripresa delle ostilità per «far pagare un prezzo di sangue a chi ha versato quello dei nostri soldati». Voci disperate, volte più a raccogliere il consenso di frange elettorali ultra minoritarie, che a sollevare un vero e proprio dibattito legislativo. Voci che si sono già perse nella nebbia verdastra della foto del generale maggiore Chris Donahue davanti al cargo C-17 che sta per riportarlo a casa.