Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2021
I padroni del Novecento
C’è stata un’epoca in cui le fabbriche erano chiamate intraprese e gli imprenditori padroni: un termine che oggi, in tempi di politically correct, evitiamo di usare perché contiene i segni di una sprezzante superiorità contro cui, già agli albori della civiltà novecentesca, i dipendenti reagivano con ostilità, dovendo faticare non poco per rivendicare i diritti. Sciur padrun da li beli braghi bianchi, fora li palanchi, fora li palanchi: così cantavano le mondine delle risaie piemontesi alla fine dell’Ottocento, chiedendo il salario a un signore che per antonomasia indossava abiti di lino chiaro e presumibilmente cappelli di marca Borsalino. Il ritornello, con la ripetitività che la voce di Gigliola Cinquetti ha reso ancora più insistente quando ha rilanciato il brano nel 1971 (in un’epoca di forti tensioni politiche ma anche di riscoperte antropologi-che), contribuisce a farne il ritratto di una persona poco generosa, cinica e prepotente, desiderosa di inseguire solo il proprio tornaconto, non rinunciando a sfruttare la manodopera e a scavalcare i limiti della legalità.
Sicuramente ci sono state figure che divergevano da simili comportamenti, ma è questa la vulgata, soprattutto per quel segmento di Novecento in cui si è affermato un capitalismo di tipo familiare (in certi casi bisognerebbe dire familistico) che tendeva a identificare la fabbrica con il suo proprietario e non concedeva nulla alla partecipazione e alla condivisione delle responsabilità. Una figura con tali caratteristiche non può essersi consolidata solamente in ragione di un’esemplarità diffusa.
Non sta scritto da nessuna parte, infatti, che un imprenditore debba vestire per forza i panni del sciur padrun tant’è che un esempio come quello di Adriano Olivetti, per tutte le ragioni connaturate al suo modello di welfare aziendale, stenta a trovare posto in questa classificazione e uno sguardo retrospettivo autorizza quanto meno a trovare attenuanti all’acredine che è andata maturando nel tempo e che le forme narrative più popolari – i libri, i film, le canzoni – hanno reso tradizione o abito sociologico.
Interrogarsi come mai sia andato consolidandosi un tratto così comune e deteriore presuppone il compito di scendere negli strati geologici a cui hanno attinto i grandi partiti di massa – la Democrazia Cristiana e il Fronte Popolare – durante le maggiori trasformazioni del secondo Dopoguerra. In un Paese dilaniato da visioni, modelli, obiettivi avversi, almeno su un punto trovavano pieno accordo: la diffidenza nei confronti della classe degli imprenditori, accusata di quel pragmatismo affaristico che non poteva trovare consenso in chi difendeva tanto i principi di uno Stato confessionale e cattolico quanto le posizioni di un marxismo anticapitalista.
Il problema sta nelle tante identità che il Novecento ha attraversato. Siamo una nazione che ha avuto e ha un rapporto controverso con il potere e con il denaro. Desideriamo entrambi però non dimentichiamo l’anima pauperistica che c’è in noi – il nostro santo patrono è Francesco d’Assisi – e questa contraddizione ha determinato quel sentimento che ha reso malgradita la presenza dei padroni nella società, che non ha mai sposa-to, per ragioni insite nella cultura, l’etica dei popoli protestanti, la filosofia del lavoro come fonte di ricchezza e testimonianza di valore.
Ma la diffidenza non nasce con l’avvento della Repubblica. Già prima, retrodatando lo sguardo agli anni del fascismo, si comprende una sorta di ostracismo verso il modello borghese di società, indicando nella sonnolenza impiegatizia romana o nel nevrotico attivismo lombardo i due punti estremi entro cui far oscillare tanto il burocrate degli Indifferenti di Moravia (1929) quanto il possidente paranoico di La cognizione del dolore di Gadda (1963, ma scritto negli anni Trenta).
Tutto ciò ha provocato una vistosa carenza nel panorama novecentesco: manca una tradizione letteraria al cui centro sia presente il racconto delle grandi imprese, l’epopea capitalista dove l’ascesa economica di una famiglia corre parallela all’ascesa economica di una nazione. Com’è possibile che non siano mai diventati oggetto di narrazioni, nelle forme di un sentire alla Buddenbrook per intenderci, gli Agnelli, i Pirelli, i Falck? Solo di recente Stefania Auci si è occupata dei Florio, ma l’ha fatto con il piglio di un feuilleton. E, d’altro canto, come si giustifica il fatto che la tipologia dei padroni sia stata dipinta in termini curiosamente antirealisti o irrealisti?
Il panorama dei romanzi, su questo, offre una galleria ricca ed eccentrica. Si comincia con Il senatore di Giancarlo Buzzi (1958): un funzionario d’azienda vorrebbe incontrarsi con il suo datore di lavoro, che però si rende irreperibile, è sempre assente, continua a nascondersi tanto che alla fine per il protagonista diventa più facile dialogare con il fantasma del vecchio fondatore, il Senatore appunto, morto da diversi anni, che gli appare ogni sera nel suo ufficio. Parimenti grottesca e kafkiana è la descrizione che Goffredo Parise fa nel Padrone (1965): sagoma uscita dal teatro dell’assurdo, che predispone ogni cosa per il bene dei suoi dipendenti (provvede a far inoculare iniezioni di vitamina, a scegliere per ognuno il partner ideale con cui formare una famiglia) in nome di un teorema secondo il quale non può esserci felicità se non appartenendo al proprio datore di lavoro, al sentirsi cioè di sua proprietà e, per un sentimento traslato, proprietà della ditta. Il romanzo di Parise, il più corrosivo e spregiudicato nella resa letteraria, esaspera la natura del personaggio arrivando a ipotizzare un’azienda in cui opera una specie di Leviatano che ha sottratto ogni li-bertà ai dipendenti e solo in ragione della sua asfissiante presenza può elargire certezze, stabilità, assistenza. Ma il libro è anche la dimostrazione che attraverso le armi del comico si può rappresentare la tragedia di una civiltà che, nonostante il mito dell’organizzazione e dell’efficienza, non riesce a liberarsi dei suoi vertici ed è costretta a patirne umori e stranezze. «Spesso mi chiedo che cosa farei, anche qui, senza un padrone, cioè senza una persona che mi ritiene di sua proprietà e che mi usa giornalmente come fossi un bicchiere, una automobile, una sedia, un letto» – confessa candidamente l’io che racconta. – «Che cosa sarei? Sarei un bicchiere, una automobile, una sedia e un letto che non servono a nessuno, cioè oggetti isolati e astratti, privi di una funzione». Un’azienda dove il capo non si fa mai trovare o dove, al contrario, è fin troppo invadente può essere già indicativa di un rapporto involuto che la letteratura stabilisce con gli imprenditori, restituendoli al rango di personaggi inconclusi, trattati alla strega di individui bizzarri o messi in ridicolo dalle stramberie che combinano nell’esercizio del loro quotidiano.
Qui il pensiero corre a Oh, Serafina! di Giuseppe Berto (1973): una fiaba ecologica dove il proprietario di un bottonificio trascura l’azienda per mettersi a parlare con gli uccelli sugli alberi, come san Francesco, e finisce in manicomio. Nel 1976 Alberto Lattuada ne avrebbe tratto un film affidando la parte dell’imprenditore a Renato Pozzetto. Il quale, tanto per rimanere nel campo della commedia cinematografica, l’anno prima, ha recitato il ruolo di un industriale del ru-binetto in Il padrone e l’operaio diretto da Steno. Di fronte a questi esempi, sembra quasi di capire che il paradigma del sciur padrun si sia modificato scegliendo la via dell’eversione dalla realtà o della fuga nella follia. Che tutto ciò abbia obbedito a finalità ideologiche è un argomento da cui non si può prescindere, ma questo non impedisce di chiedersi come mai, pur volendo denigrare il personaggio del padrone, sia stata preferita la parodia e non il registro tragico o realistico.
È una delle tante anomalie che il Novecento ci ha consegnato senza darci risposte. Poi sarebbe arrivato il tempo in cui le aziende sono diventate multinazionali e a quel punto il discorso si è complicato. Il termine padrone è stato cancellato per sempre.