Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2021
Kabul, una economia fondata sull’oppio
La cifra degli aiuti ricevuti – 2 trilioni di dollari – si erge – quasi oscena – quando si parla di economia afghana. Dalle immagini che giungono da Kabul, il fallimento dell’intervento sembra assoluto. Sarebbe però erroneo dare per scontato che lo stato dell’economia sia catastrofico, anche se le ombre non sono meno che le luci. La strada della ricostruzione economica era invero complicata fin dall’inizio.
Il Paese è privo di accesso al mare, primo ostacolo allo sviluppo, e dalla fine degli anni 70 ha dovuto fare i conti con sovvertimenti di regime, invasioni esterne e conflitti civili persistenti. E vent’anni di aiuti non sono riusciti a modificare in profondità la struttura produttiva, che resta dominata dall’agricoltura, soprattutto frumento e più in generale cereali destinati al consumo interno. L’industria, dal canto suo, consiste tuttora di attività artigianali, tra cui produzione di tappeti, e sfruttamento di risorse minerarie. Ma il peso del manifatturiero, già basso (19%), è ora quasi irrisorio (6%). Mentre la spesa pubblica si aggira intorno al 57% del Pil, il settore privato è popolato da piccole imprese poco produttive. Del resto, come essere imprenditore in un Paese in cui domina l’insicurezza, sia fisica (ogni anno muoiono più di 10 mila civili e le spese per la difesa esterna e interna ammontano al 28% del Pil 2019, rispetto a 3% per la media dei Paesi a reddito basso), sia giuridica, le infrastrutture fanno pena, le istituzioni mancano o sono corrotte (l’Afghanistan occupava la 173° posizione nella graduatoria di 2020 Doing Business, su 190 Paesi)?
I servizi hanno registrato un modesto progresso, grazie soprattutto alla telefonia, mentre quelli finanziari sono poco sviluppati. Li forniscono in realtà gli hawaladars, intermediari del settore informale, che invece non ha smesso di crescere: contrabbando di qualsiasi cosa, gestione dei flussi migratori, miniere illegali e, vera e propria eccellenza dell’economia afghana, la droga. Quando si parla infatti di coltivare il papavero e di trafficare oppio ed eroina, il Paese è una potenza globale.
Poco diversificato e poco competitivo, l’Afghanistan soffre di un deficit commerciale ormai strutturale che si aggira sul 30% del Pil, finanziato quasi completamente da donazioni (grants). La cooperazione allo sviluppo, sotto forma di costruzione di infrastrutture, assistenza tecnica e attivazione della domanda di servizi ausiliari, ha in effetti consentito al Paese di crescere a tassi cinesi tra 2003 e 2012 (9,4% medio annuo). Il reddito pro capite, pur restando tra i più bassi al mondo (2.088 dollari, in parità di potere d’acquisto, nel 2020, il livello del Pakistan nel 1992), è più che raddoppiato rispetto al 2002 (quando era 877 dollari). L’incidenza della povertà è declinata da 55% nel 2016-17 a 47% nel 2019-20. Il numero di alunni è aumentato nove volte dal 2001, la mortalità infantile è passata da 257 a 50 (per mille neonati).
Il processo di lentissima convergenza si è interrotto negli ultimi cinque anni, durante i quali la crescita media è stata del 2,5%, ed alcuni indicatori di sviluppo sono perfino peggiorati. In causa la contrazione degli aiuti (che in percentuale del Pil sono passati da 100% nel 2009 a 43% nel 2020) che ha accompagnato la riduzione della presenza militare internazionale (da più di 130 mila nel 2011 a circa 10 mila l’anno scorso), nonché il Covid-19 (la stima, in assenza di dati di contabilità nazionale, è che il Pil sia diminuito del 1,9%). Ma soprattutto ha giocato contro l’incapacità dei vari governi succedutisi nel tempo di indirizzare adeguatamente gli aiuti (che, va detto, erano in parte non indifferente destinati alla sicurezza).
Quali saranno gli orientamenti di politica economica dei Talebani è una domanda cui non è semplice fornire risposta. Per quel poco che vale il parallelo, in Iran la politica monetaria è sempre stata abbastanza ortodossa, il ruolo dello Stato nell’economia resta preponderante (certo, col beneficio della manna petrolifera) e nell’imprenditoria teoricamente privata prevalgono i gruppi economici legati ai Mujahedin.
Su assi simili si può immaginare che si muoverà il nuovo regime a Kabul, mentre è difficile prevedere che gli aiuti internazionali continuino a essere così cospicui, al netto di quelli potenzialmente destinati all’emergenza umanitaria. Del resto, già alla conferenza di Ginevra dello scorso novembre i donatori avevano fatto promesse molto meno importanti che in precedenza e le avevano condizionate a reali progressi nella governance e nella protezione dei diritti umani. La revisione dell’Afghanistan Partnership Framework potrebbe essere la prima occasione per un confronto costruttivo.