Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2021
La legge a difesa della sicurezza dei dati sensibili cinese
La fitta ragnatela di regole del Governo cinese a difesa della sicurezza dei dati sensibili sta imbrigliando le migliori aziende tecnologiche di Pechino, le più internazionalizzate e, anche, le più amate dagli investitori stranieri.
La parabola delle Big tech cinesi, resa evidente dall’andamento convulso dei titoli degli ultimi mesi, non può che peggiorare. Da oggi, infatti, è operativa la Data security law, destinata a dare il colpo di grazia alle quotazioni cinesi sui listini stranieri perchè impone misure molto pesanti sulla conservazione e l’uso dei flussi di dati creati in Cina che, anche solo potenzialmente, potrebbero lasciare il Paese, come avviene nel caso delle quotazioni all’estero.
Non sarà facile adeguarsi, tanto è vero che Pechino ha concesso una moratoria organizzativa fino a fine anno. Ma la legge è legge e indietro non si torna.
Sempre da oggi, infatti, una revisione della Cybersecurity Law varata quattro anni fa, spiega cosa sono le infrastrutture telematiche sensibili, precisando che la vigilanza sarà affidata all’autorità di Pubblica sicurezza.
Il 2021 è stato l’anno d’oro dei debutti, la metà delle 73 matricole cinesi ha scelto, finora, le piazze di New York e Hong Kong. Ma il caso Didi, l’App di trasporti urbani creata da Cheng Wei, un ex manager di Taobao, è esemplare: la Cybersecurity Authority of China (CAC) all’indomani della quotazione a Wall Street, a giugno, ne ha disintegrato il valore di borsa imponendo prescrizioni a raffica sui dati, in seguito confluite nella nuova legge.
Questo è solo un assaggio di quello che, d’ora in poi, sarà la norma. L’onnipresente CAC ha varato in agosto nuove linee guida sul trattamento di dati sensibili da inserire nei prospetti informativi, rivendicando il potere di autorizzare o no la quotazione, anche se l’ultima parola spetta, ovviamente, all’Autorità di controllo sulla Borsa. Autorità che ieri è scesa in campo sul fronte del private equity e del venture capital, annunciando il proposito di stoppare le Ipo farlocche e colpendo la speculazione legata alle quotazioni. «I fondi di private equity falsi saranno sradicati – ha detto il chairman Yi Huiman – e le offerte pubbliche di acquisto dovranno essere mirate a investitori qualificati».
Non passa giorno senza che una legge metta nuovi paletti, come nel caso dell’informazione finanziaria via web: sabato scorso una nuova circolare della CAC ha stabilito le regole dell’informazione finanziaria rivolta agli investitori, in qualche modo spianando il terreno all’intervento di Yi Huiman.
Perfino la manovra in favore dei diritti dei minori, con tanto di eliminazione di App con contenuti sessuali espliciti e il freno al gioco online ridotto a 3 ore a settimana per chi ha meno di 18 anni introdotto dalla National Press and Publication Administration, l’autorità di vigilanza sui videogiochi, ha danneggiato ulteriormente Tencent e NeatEase, il cui fatturato è legato soprattutto ai giochi. I titoli del gigante di Shenzhen, in particolare, hanno subito perso un altro 7 per cento.
A complicare il quadro per le società cinesi quotate o che vogliono quotarsi all’estero arrivano anche, a tenaglia, la nuova disciplina dell’autorità Antitrust che per la prima volta considera l’esistenza delle società parallele grazie alle quali le Big Tech cinesi, finora, hanno potuto quotarsi all’estero aggirando i divieti di ingresso degli stranieri nel capitale di aziende sensibili per la sicurezza nazionale, e la neonata legge sulla privacy, la Personal data security Law appena varata dal Comitato centrale del Congresso nazionale del popolo.
Operativa dal 1° novembre e fortemente ostile all’uso di dati personali da parte dei giganti di Internet, la legge rischia già di mandare in tilt il fiorente traffico finanziario cross-border tra Mainland China e Hong Kong, a causa dell’enorme mole di dati da scambiare.
Il rischio di non riuscire a gestire più la ragnatela è altissimo, tanto più che anche dagli Stati Uniti – tra divienti di utilizzo di società-scudo e disinvestimenti forzati da aziende cinesi quotate finite della black list del Tesoro, tira davvero una brutta aria.
Rita Fatiguso
A Wall Street 250 società a rischio
La posta in gioco è nelle cifre: a Wall Street sono presenti almeno 248 società cinesi quotate, per un valore di borsa che quest’anno ha raggiunto i 2.100 miliardi. Moltiplicatosi da meno di cento dieci anni or sono e da una manciata di miliardi un ventennio fa, stando agli ultimi calcoli ufficiali dell’organismo federale United States-China Economic and Security Review Commission. Anche al netto delle più recenti oscillazioni nei numeri e nella market cap, con centinaia di miliardi bruciati da preoccupazioni sul futuro dei titoli targati Cina, sono numeri che misurano il rilievo sui mercati azionari americani della Corporate China.
Per converso, sono anche barometro del nervosismo per i possibili abbandoni di queste piazze, volontari o involontari, davanti ai giri di vita in arrivo sia da Washington che da Pechino. A questi titoli, il cui collocamento fa gola all’alta finanza, sono ormai esposti non solo grandi investitori ma fondi e risparmiatori retail. Perché i rendimenti sono stati spesso straordinari: la tech cinese NetEase, quotata dal 2000, ha messo a segno guadagni tuttora del 15.000%, contro il 10.000% di Amazon nello stesso periodo. Ancora nel 2020 la fame di titoli cinesi è stata evidente: i loro collocamenti sui mercati dei capitali per eccellenza, quelli americani, sono stati 32, massimo decennale, rastrellando oltre 12 miliardi, record dal 2014.
La market cap targata Cina, certo, per le borse americane può apparire circoscritta a fronte di un tesoro complessivo da 46.000 miliardi. Equivale però quasi quanto a una Apple, con le prime dieci società della potenza asiatica quotate in America che comprendono influenti leader da Alibaba a Tencent, da JD.com a Pinduoduo. Eventuali divorzi traumatici dal Nyse e dal Nasdaq potrebbero scuotere la fiducia, nonostante la prospettiva di continui rapporti con gli investitori internazionali attraverso una piazza quale Hong Kong. Il prezzo pagato a incognite e pessimismo, per aziende e investitori, è già trapelato dalla recente performance del Nasdaq Golden Dragon Index, l’indice che riunisce i 98 principali marchi di Pechino negli Usa: ha perso metà del suo valore da febbraio e il 30% da inizio anno.
A suonare l’allarme sul futuro delle aziende cinesi a Wall Street è la rara confluenza di strette delle autorità statunitensi e del governo di Xi Jinping, seppur per ragioni diverse: Casa Bianca, Congresso e authority americane sono impegnate a rintuzzare l’avanzata della Cina, accusata di trarre indebito vantaggio da abusi e violazioni delle regole. Liste nere di aziende classificate come ancillari a forze armate e intelligence di Pechino si sono tradotte nell’estromissione dal Nyse di tre grandi telecom. Di più: dopo il tracollo l’anno scorso della Luckin Coffee per vendite truccate, è entrato in vigore lo Holding Foreign Companies Accountable Act. Una nuova legge che richiede alla Sec di far rispettare ai marchi cinesi entro tre anni, pena espulsione, normative di trasparenza finanziaria e sui rischi finora eluse schermandosi dietro a norme cinesi di sicurezza. Nel mirino, tra l’altro, sono le società di comodo (Variable Interest Entity) spesso usate dalle imprese di Pechino per quotarsi in America a fronte di divieti cinesi alla cessione a stranieri di quote in società operative. Il neo-chairman della Sec, Gary Gensler, ha inoltre congelato al momento le Ipo targate Cina. I colpi di Washington si sommano alle azioni di Pechino volti a limitare sbarchi esteri di grandi gruppi per riasserire il proprio controllo. Risultato: se c’è chi è convinto che globalizzazione e intrecci finanziari alla fine prevarranno, a Wall Street è oggi difficile ipotizzare nuove grandi Ipo targate Cina mentre è possibile prevedere ondate di delisting. Ci sono precedenti che possono diventare preludio: una decina d’anni or sono scandali contabili innescarono l’esodo di un centinaio di aziende cinesi.Marco Valsania