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 2021  settembre 01 Mercoledì calendario

Mario Mieli: «Io, salvato come i bimbi di Kabul»

Il 25 agosto 2021 un bambino afghano viene consegnato dai genitori a Tommaso Claudi, un funzionario del consolato italiano a Kabul, nel disperato tentativo di metterlo in salvo dalla furia dei talebani e dagli orrori della guerra civile. Il 16 ottobre 1943, un bambino ebreo di due anni, viene consegnato dai genitori, ormai sul camion che li porta verso la deportazione e l’inferno di Auschwitz, ad una zia, nel disperato tentativo di salvarlo da una morte certa.
L’accostamento tra le due vicende può sembrare improvvido e inopportuno: paragonare la Shoah ad una guerra civile, per quanto cruenta, è sicuramente sbagliato.
Ma sono molte le similitudini, molti i fattori che ci devono far riflettere.
Le vittime, innanzitutto: sono i bambini i soggetti più indifesi, più fragili, di ogni conflitto, di ogni genocidio, di ogni sterminio di massa. Ogni volta che si parla di guerra, giusta o ingiusta, offensiva o difensiva, in nome dei valori della democrazia o per qualche folle ideologia religiosa o politica, i primi a venire schiacciati, violentati, uccisi sono sempre i bambini. Ci possiamo girare intorno quanto vogliamo, possiamo difendere scelte e posizioni in tutti i modi possibili e immaginabili, ma sono sempre i bambini a morire e a soffrire per primi.
E poi ci sono le famiglie di quei bambini, di quelle vittime. Possiamo soltanto immaginare lo strazio di quei genitori, afghani o romani, costretti alla scelta più estrema, più innaturale, più intollerabile: quella di gettare i propri figli nelle braccia di sconosciuti, affidandoli ad un destino incerto, sperando nella bontà e nella generosità altrui.
L’incertezza del futuro, l’impossibilità di conoscere la sorte dei propri figli, l’incapacità di difenderli, è sempre più accettabile di un presente senza speranza, è uno strazio che difficilmente può comprendere e che uccide un genitore forse più della morte stessa. È un atto di disperazione, ma anche di generosità estrema, totale.
È la rinuncia alla propria felicità per il resto della vita, breve o lunga che sia.
E a restare, poi, sono le cicatrici della memoria, anche decenni dopo la fine di una guerra. Il dolore per i lutti, che forse si può metabolizzare, ma mai superare completamente. Il rimpianto per la vita che si sarebbe potuta vivere.
Ne parliamo proprio con quel bambino ebreo, oggi ottantenne, Mario Mieli, salvatosi quel 16 ottobre di tanti anni fa, che ha accettato di raccontare la sua storia. Lo incontriamo col figlio Lello, alla Fondazione Museo della Shoah.
Cosa è successo il 16 ottobre del 1943?
«Cosa succede a me? So quello che mi hanno raccontato. Calcoli che io avevo due anni e mezzo. Non mi ricordo né la faccia di mia madre né quella di mio padre. Noi abitavamo in via Portico d’Ottavia 9. Siamo stati presi dentro casa. Eravamo io, mio padre e mia madre. Pacifico Mieli e Di Segni Graziella. Verso le sei, sei e mezza, a quanto mi hanno detto, hanno bussato alla porta, hanno chiesto di prepararsi in venti minuti e di andare con loro perché andavamo a lavorare in Germania.
Siamo andati al punto dove c’era il camion. Avevo una sorella di mia madre, Enrica Di Segni, che abitava vicino. Come ha sentito le prime voci della retata si è precipitata a vestire i figli e la prima preoccupazione è stata di avvisare sua madre. Noi stavamo sul marciapiede a destra e lei stava sull’altro marciapiede e cercava di capire cosa succedeva. Io ho avuto due fortune. La prima è che una persona, sicuramente cattolica, che tornava dal fare la spesa, ci ha incrociato e ha detto a voce alta: "Che se lo portano a fare questo ragazzino a lavorare". Mia zia ha sentito e ha detto alla signora: "Io sono ebrea, non ci posso andare.
Vada lei a prenderlo e poi me lo porto via io". "Certo che ci vado.
Voglio vedere se non me lo danno".
È andata a parlare con i tedeschi che non capivano. La seconda fortuna è che dal camion è uscito Arminio Wachsberger (un altro ebreo prigioniero, che parlava tedesco). Si è affacciato e ha convinto i tedeschi.
Arminio ha raccontato questa storia allo storico Marcello Pezzetti, e io l’ho saputo più di vent’anni dopo.
La signora mi ha preso in braccio, si è incamminata, e ha sussurrato a mia zia: "Glielo do ai giardinetti" (in una piazza nelle vicinanze)».
Lei ha mai saputo chi era questa signora cattolica?
«Non ho mai saputo chi era e non si è mai presentata. Mia zia mi ha detto che non era della zona. Io sono cresciuto con mia zia e con fratelli e sorelle più grandi che mi hanno accolto come e più di un fratello».
Lei quando ha saputo di essere stato adottato?
«L’ho saputo quando ho cominciato le elementari, perché loro si chiamavano Pace io mi chiamavo Mieli. Non capivo perché. Ho sempre chiamato mamma la zia.
Erano papà e mamma».
Quando ha saputo del 16 ottobre?
«Ho sempre saputo, però ho cominciato a testimoniare da venti anni. Il più delle volte mi mettevo a piangere. Non riuscivo a completare le frasi. Io sono andato ad Auschwitz quattro volte, ma ogni volta che ci andavo per me era una cosa… Entrare dentro ad Auschwitz e pensare: sarà passato qua, sarà stato qua, c’era mia madre. Quando si faceva una cerimonia al Tempio per il 16 ottobre e al cimitero con Elio Toaff, non eravamo mai dieci uomini (il numero minimo per fare un funerale religioso ebraico, ndr) ».
Pensa mai a suo padre e a sua madre?
«Ho la loro fotografia in camera da pranzo e la guardo tutte le sere. È dell’agosto del 1943, stavamo a Tivoli. Ci sono mio padre, mia madre ed io. Questa è l’unica fotografia di mia madre. Io non l’ho mai più vista. La mia fortuna è stata di aver trovato una famiglia che mi ha accettato e che mi ha dato tutto».
Pensa mai a come sarebbe stata la sua vita se non ci fosse stato il 16 ottobre?
«No. Oggi posso dire che sono nonno. Ho figli, nipoti e pronipoti.
Mio zio mi ha accettato completamente. Anzi, il più delle volte venivano puniti i miei fratelli più di me. Però non si parlava mai della cosa».
Cosa pensa del gesto di sua madre?
«Ne ho parlato con mia mia moglie, anche lei è orfana perché suo padre è stato preso che aveva sei mesi. Ma anche lei non ricorda niente. Le hanno poi raccontato tutta la sua storia».
Perché ha cominciato a parlare dopo tanti anni?
«Ho cominciato a parlare in una scuola sulla Prenestina a Roma, grazie a una maestra che si era appassionata alla mia storia. Come ho cominciato a parlare ho cominciato a piangere».
Ma prima nessuno le ha mai chiesto di raccontare?
«No. Nessuno mi ha mai interpellato. Tutti lo sapevano».
E sua zia le ha mai parlato di sua madre.
«Sì, quando ero piccolino mi diceva: vedrai che mamma torna. Sta lavorando in Germania. Poi col tempo…».
Quando ha visto le foto dei bambini di Kabul, cosa ha provato?
«Sinceramente mi sono sentito toccato. Stanotte pensavo: se danno via i loro bambini queste persone sanno che si salveranno. Dei bambini deportati il 16 ottobre non è ritornato nessuno. Se quel giorno quella persona non passava, io avrei fatto la stessa fine».
Interrompiamo l’intervista. La lucidità di Mario Mieli, l’onestà del suo racconto, non riesce a mascherare il profondo, terribile dolore che ancora oggi trapela dal suo sguardo. Ci congediamo con un pensiero: cosa sarà di quei bambini afghani che sono riusciti a salire sugli aerei occidentali? Cosa racconteranno le loro madri, se potranno, in futuro? E cosa sarà dei tantissimi che, invano, stavano aspettando di fronte al muro dell’aeroporto?