la Repubblica, 1 settembre 2021
Il figlio del Mullah Omar rivuole il trono del padre
Mullah Yaqub é emerso all’onore delle cronache nei mesi precedenti l’annuncio della morte di suo padre, il Mullah Omar. Per un periodo è stato visto da molti, all’interno del movimento e non solo, come un riformatore che voleva portare più trasparenza e soprattutto emancipare i talebani dalla pesante tutela pachistana. Nel corso degli anni, tuttavia, Yaqub ha perso molta della credibilità originaria.
A nemmeno 30 anni Yaqub si stava preparando nel 2015 alla successione di suo padre, morto da almeno due anni. In poco tempo, Yaqub aveva ricoperto numerosi incarichi nella struttura dei talebani, sia a livello organizzativo che, almeno in teoria, come capo militare. Non sorprende che la conferma nel luglio 2015 della morte di Omar da parte dell’allora vice di Omar, Akhtar Mohammad Mansur, e al tempo stesso della propria candidatura alla massima carica di “Leader dei Credenti” abbia irritato Yaqub e la sua famiglia, che si sono sentiti defraudati. Yaqub e suo zio Abdul Manan divennero allora due dei leader dell’opposizione a Mansur, quando questi cercò di intavolare negoziati col presidente Ghani senza consultare il Consiglio della Leadership. Una buona metà del Consiglio proclamò una secessione con sostegno di Yaqub e Manan. Sebbene Yakub sia poi stato conosciuto principalmente come il capofila dei moderati, è emerso all’onore delle cronache nel ruolo molto più ambiguo di oppositore del tentativo di Mansur di negoziare (imposto dai servizi pachistani).
La scissione in gran parte rientrò nel giro di pochi mesi e solo una minoranza rifiutò di riconciliarsi con Mansur, diventando poi nota come la Shura di Rasool (dal nome del leader), che ha vivacchiato fino alla sua disintegrazione qualche mese fa. Di fronte alle pressioni pachistane, Yaqub dovette inchinarsi, fallendo la sua prima prova di leader.
Dopo un periodo in cui tenne un basso profilo, Yaqub emerse sotto la guida del successore di Mansur (ucciso dagli americani nel 2016), Haibatullah Akhund, come fautore del negoziato con Kabul, in opposizione alla linea di Haibatullah che vedeva il negoziato con gli americani come prioritario. La linea di Yaqub non era necessariamente “moderata": la sua retorica era che gli americani erano infedeli e bisognava invece parlare al governo afghano, che era pur sempre musulmano. Grazie a questa posizione Yaqub, che osteggiava Haibatullah perché mirava a prendere il suo posto, riusciva ad allearsi con l’altro grande oppositore di Haibatullah, il “duro” Serajuddin Haqqani. A Serajuddin piaceva il rifiuto di Yaqub di trattare con gli infedeli e ben sapeva che un negoziato diretto con Kabul non avrebbe portato da nessuna parte. Altri elementi di unione tra i due erano il fatto che ambedue venivano finanziati abbastanza lautamente dal governo saudita, che osteggiava Haibatullah per i suoi legami con l’Iran; e l’opposizione all’apertura di Haibatullah alla Russia, altro Paese di «infedeli».
L’alleanza con Serajuddin ha cominciato a incrinarsi quando l’inviato di Trump, Zalmay Khalilzad, è apparso sulla scena alla fine del 2018 per negoziare un accordo tra talebani e americani. A questo punto Yaqub ha dovuto scegliere e ha deciso di sostenere l’accordo con gli americani, mentre Serajuddin ha continuato a opporvisi. Yaqub, il cui obiettivo principale sembrava essere opporsi ad Haibatullah e posizionarsi come suo futuro sostituto, è stato indebolito dal suo allinearsi con Haibatullah sui negoziati di Doha. La liberazione di Mullah Baradar da una prigione pachistana nell’ottobre del 2018 e la sua nomina a capo della commissione politica e a (terzo) vice di Haibatullah nel gennaio 2019 hanno rappresentato duri colpi per Yaqub, che ambiva a presentarsi come il capo dell’ala moderata della Shura di Quetta e stava insistendo con Haibatullah per essere messo a capo della commissione politica. Chiaramente Yaqub pensava che un successo negoziale (far uscire gli americani) avrebbe rafforzato il suo profilo al punto di renderlo veramente papabile. Invece, con la sua nomina Baradar entrava a far parte della cerchia di sostenitori di Haibatullah e lasciava Yaqub isolato, a capo di un piccolo gruppo di sostenitori di “negoziati subito” con Kabul. La linea di Yaqub era impopolare tra i talebani, perché nessuno voleva veramente negoziare con Ghani. Ed ora Baradar è diventato il capo indiscusso dei moderati grazie al suo ruolo nel ritiro americano.
La nomina di Yaqub a capo della Commissione militare nel maggio 2020 va vista come uno sforzo di Haibatullah di moderare l’opposizione di Yaqub, in una fase in cui i capi militari dei talebani cominciavano a dare non pochi grattacapi ad Haibatullah. Haibatullah sembra aver calcolato che Yaqub non sarebbe riuscito a trasformare la Commissione in un suo feudo personale, avendo a che fare con personaggi potenti e determinati quali i suoi “vice” Ibrahim Sadar e Abdul Qayum Zakir, e anche di fatto con il suo ex alleato Serajuddin Haqqani, che è molto influente all’interno dell’apparato militare dei talebani. Al contrario, Haibatullah poteva beneficiare dalla nomina di Yaqub se quest’ultimo fosse riuscito a controbilanciare il potere di Sadar, Zakir e Serajuddin, o anche se si fosse screditato nel futile tentativo di farlo. Tra i talebani nessuno attribuisce oggi il successo militare a Yaqub, che si è dimostrato incapace di controllare i suoi capi militari.
Mentre i leader del sud erano in competizione gli uni con gli altri, gli Haqqani hanno preso Kabul, rendendo quelle rivalità meno attuali. Yaqub è oggi insieme a Baradar il principale contendente di Serajuddin a Kabul, nel tentativo di riportare i talebani dell’est sotto il controllo della leadership centrale. Se perde Baradar, perdono anche Yaqub e tutta la vecchia leadership politica.
(Antonio Giustozzi è visiting professor al King’s college di Londra)