Corriere della Sera, 1 settembre 2021
Intervista ad Alba Rohrwacher
Alba Rohrwacher è l’attrice dei Festival. E alla Mostra ne porta due, di due registe donne: Maggie Gillenhaal e Laura Bispuri. Fiorentina, 42 anni, da piccola voleva fare l’acrobata al circo, è cresciuta in campagna col padre tedesco apicoltore che gli ha fatto scoprire Bach. Sua sorella è la regista Alice, abituata ai premi anche lei. Alba buca lo schermo col suo volto così poco italiano, con la sua grazia rivestita di una sorta di seconda innocenza ma che nasconde una sottile inquietudine che trasmette alle donne da lei interpretate, tutte con un dilemma, una frattura. Il regista dei suoi sogni? «Kubrick».
Venezia, Cannes, Berlino…
«Sono legata a tuti e tre i festival in modo diverso, è sempre un po’ come far parte di una piccola banda di soldati che, armati dei vestiti più belli, vanno a svelare, e a difendere, il lavoro fatto».
La sua prima volta al Lido?
«Era il 2004, avevo partecipato a un corto di Soldini e a L’amore ritrovato di Mazzacurati. Arrivai con un’amica e non so come mi ritrovai sul trappeto rosso alle tre del pomeriggio, tirandomi dietro il trolley. Non riuscivamo a trovare l’uscita e l’abbiamo percorso fino in fondo. Una scena assurda, goffa, da film. Per fortuna il tappeto era ancora deserto e pochi notarono le due ragazze con la valigia, finite per l’emozione dove non sarebbero dovute essere».
Ha vinto la Coppa Volpi.
«Nel 2014 con Hungry Hearts, è forse la prima volta in cui sono stata capace di gioire «senza ombre», sono stata davvero felice e non ho avuto paura di esserlo. Non mi sono sentita inadeguata o sbagliata. Piena di gratitudine per un film a cui avevo lavorato con amore, diretta dal mio compagno, Saverio Costanzo».
Invece ora veste leopardata nel film di Laura Bispuri…
«Ne Il paradiso del pavone sono un po’ goffa, fragile, non mi sento mai davvero a mio agio. Il film racconta un lungo pranzo di famiglia, apparentemente normale, se non fosse per un piccolo grande evento che mette in discussione tutte le certezze... Questo è il nostro terzo film insieme. Con Laura, è come tornare a casa dopo un grande viaggio. E la casa può essere ovunque. Sa come condurmi, come portare la mia anima in posti a me ancora sconosciuti».
Poi è nell’esordio da regista di Maggie Gyllenhaal.
«Sono rimasta affascinata dalla sua delicatezza. Siamo entrate nel mondo di Elena Ferrante. The Lost Daughter, dal romanzo La figlia oscura che conoscevo già. La sceneggiatura è splendida e paurosa. Nel romanzo tutti i personaggi sono italiani e a un certo punto appare una coppia di stranieri. Maggie ha invertito i ruoli e in un film anglofono la straniera sono diventata io, l’italiana viaggiatrice».
C’è più intimità e complicità nel girare con registe donne o sono le persone a fare la differenza?
«Credo che la differenza la facciano le umanità diverse, piuttosto che i generi. Tra le registe donna con cui ho lavorato ci sono persone speciali e finire nella loro fantasia è stato un viaggio dolce, sempre in qualche modo familiare».
Lei ha detto che gli inizi non sono stati facili e in tanti hanno cercato di scoraggiarla.
«Kate Winslet ha raccontato di come alcuni insegnanti l’avessero scoraggiata. Anche io ho incontrato persone che mi avevano fatto capire che non c’era spazio per me, per la mia fisicità fuori dagli schemi, nel cinema italiano. A vent’anni, quando cercavo un agente, in un paio di occasioni la risposta fu la stessa: non ero fatta per il cinema».
Come reagì?
«Uscita da un incontro ho guardato la gonna bianca che avevo comprato per l’occasione. Ho questa immagine: il mio sguardo che si abbassa, probabilmente piangevo. Ma il pomeriggio sono andata a teatro, dove stavo provando uno spettacolo, e ho capito che la mia gioia era lì. Un lavoro, anche se piccolissimo, lo avevo. E quello mi bastava».
Il divismo una volta era legato al mistero, oggi alla condivisione. È qualcosa che riguarda le attrici o piuttosto le influencer?
«Oggi mi sembra tutto capovolto. Se prima era legato ad una inaccessibilità, una lontananza e la fantasia veniva alimentata da ciò che era sconosciuto e per questo irraggiungibile, ora la condivisione estrema rende tutto vicino e quasi controllabile. Non so più se esiste una possibilità di divismo».
Quali film di Venezia vorrebbe vedere?
«Quelli italiani, tutti autori che stimo, e poi Jane Campion, Almodovar, Pablo Larrain, il mio amico Thomas Kruithof e tanti altri. Il programma è bellissimo, e finalmente si torna in sala insieme, tra sconosciuti…Solo l’idea di lasciarmi andare allo sguardo di un regista, di vedere un film insieme a tanti altri spettatori nel mistero della sala mi sembra un sogno».