Corriere della Sera, 1 settembre 2021
Biografia di Lucrezia Lante della Rovere raccontata da lei stessa
«Ero molto giovane e non amavo la mondanità, ma quella volta mi convinse ad andare alla prima alla Scala di Milano: l’evento più mondano che possa esistere. E per convincermi mi regalò addirittura un vestito favoloso che era bordato di visone bianco: sembravo Audrey Hepburn. Ma non sapevo cosa aveva architettato...». Lucrezia Lante della Rovere ricorda divertita e con affetto il «tranello» progettato dalla madre Marina Ripa di Meana. «Io, ignara, in pelliccia dentro al teatro, lei fuori nella piazza davanti alla Scala mentre, a seno nudo in pieno gennaio, faceva una manifestazione animalista contro l’uso delle pellicce bruciandole... Venni travolta da un turbine di paparazzi, perché era clamoroso che la madre usasse la figlia per una denuncia sociale... Luca (Barbareschi ndr) che mi accompagnava, sembrava il mio bodyguard».
Si arrabbiò con Marina?
«Non ci parlai per un anno... Ma ora ci rido. Mamma era fatta così, perennemente sopra le righe, la sua esistenza un’altalena di eventi... Quando aveva un’idea non guardava in faccia a nessuno, passava sul cadavere di chiunque e se io mi arrabbiavo, ribatteva che non avevo ironia, esclamava: e fatti una risata! Però ha compiuto tante battaglie civili e politiche, per lei il gusto della provocazione era più forte di qualunque cosa ed era un’abile stratega, venditrice di se stessa. È stata molto coraggiosa anche quando si è ammalata, diventando portavoce e mettendosi a disposizione di chi era colpito dalla stessa malattia, spronando gli altri a non vergognarsi, a superare i pudori, i pregiudizi, a parlare del problema e non sentirsi malati nella vita. Ha persino realizzato un video-testamento, il giorno prima di morire, per l’associazione Luca Coscioni a favore dell’eutanasia, che è un modo per andarsene da questa terra in maniera dignitosa... Ma siccome siamo in un Paese cattolico, è difficile».
Era una donna speciale.
«Sì e mi manca sempre di più. A differenza di mio padre, che aveva il mal di vivere, si limitava a sopravvivere, era dipendente dall’alcol e non ha avuto una bella vita, ho ereditato per fortuna da lei dei cromosomi veramente tosti, direi maschili. Era una madre forte, anche severa e bacchettona».
Davvero? Trasgressiva e bacchettona?
«Sì, una contraddizione davvero buffa per una donna così libera, spregiudicata. Quella volta che mi beccò a letto con un mio fidanzato, mi fece una scenata, poi se ne andò infuriata e scandalizzata. Però era creativa, mi ha insegnato a usare la fantasia per affrontare la vita, me lo ha inculcato persino in maniera aggressiva, brutale, dicendomi “mettiti un carciofo in testa, ma fai qualcosa!”... Era un’artista».
E a proposito di arte, lei Lucrezia è discendente del papa Giulio II che commissionò a Michelangelo gli affreschi della Cappella Sistina.
Ride: «Ho saputo, recentemente, che quando il Papa vide il lavoro ultimato, pare che disse a Michelangelo: ci potevi mettere una bella tappezzeria! Insomma era un bel rompiscatole. Comunque, per quanto mi riguarda, quando ero bambina sono cresciuta con il complesso del cognome importante, della famiglia aristocratica alle spalle...».
Perché?
«Si dice che gli aristocratici non lavorano, non he hanno bisogno, possiedono i palazzi, le proprietà, una mentalità conservatrice, tradizionalista... Tutte cose in cui non mi riconoscevo, non sono cresciuta come ragazza aristocratica e avrei voluto chiamarmi Maria Rossi, insomma essere normale. Oggi, che sono invecchiata, la penso diversamente: della mia famiglia non è rimasto più nessuno, sono l’unica superstite ed è un peccato che non ci siano eredi, oltre me, che abbiano il mio cognome, una discendenza importante... All’epoca invece mi pesava e desideravo nasconderlo anche quando ho iniziato a lavorare».
Prima modella poi attrice...
«Volevo emanciparmi, essere autonoma, autosufficiente, guadagnare i miei soldini e affrancarmi dalla famiglia. Fare la modella era la cosa più facile: ero carina, magra, ero dotata di un certo portamento... Tuttavia sapevo che, essendo una tipa inquieta, non avrei fatto la modella a vita, era un passaggio per approdare ad altro. Infatti poi arrivò l’occasione giusta: Mario Monicelli cercava una ragazza che conoscesse le lingue e sapesse andare a cavallo, mi scelse per Speriamo che sia femmina. Ben presto ho capito che raccontare delle storie era per me la strada giusta, pane per i miei denti».
In che senso?
«In fondo ero una giovane timida e interpretare dei personaggi mi ha permesso di dare delle risposte alle mie domande, superare delle sfide, vincere le paure, mi sono innamorata di questo mestiere. Per un timido è come mettersi alla prova, di fronte a un baratro, un modo per superare le insicurezze».
Però non ha frequentato scuole, accademie per attori, giusto?
«No ma Luca, grande attore e regista, mi ha insegnato molto. Quando ci siamo messi insieme, lui a 36 anni era già famoso: era bello, trasgressivo, intelligentissimo, già antipatico a tutti. Avevo dieci anni di meno, ero acerba e pazza di lui, lo stavo ad ascoltare con la mascella che mi cascava, a bocca aperta, ma era durissimo, severo... Diceva che ero dotata di un mondo emotivo, di grande sensibilità che lo affascinava, ma altrettanto priva di tecnica. Mi scritturò per lo spettacolo Oleanna di David Mamet e mi fece studiare tantissimo, non solo il copione... Mi costringeva a tenere una matita in bocca fino allo sfinimento per migliorare la dizione e poi si inventava dei trucchetti quando ci trovavamo in palcoscenico. Era pericoloso».
Per esempio?
«Se non era convinto della mia recitazione, se non la sentiva vera, con il pubblico presente in sala, era capace di uscire improvvisamente di scena, per andarsi a nascondere dietro le quinte... Creava il panico, mi mollava da sola, mi portava sull’orlo del precipizio, lui sapeva come farlo e, data la sua esperienza, mi costringeva a reagire, conducendomi dove voleva... Un escamotage anche per sconfiggere la ripetitività delle repliche».
Intanto, precedentemente, lei era già diventata mamma...
«Quando ho conosciuto Giovanni (Malagò, ndr) avevo 21 anni e abbiamo fatto subito due gemelle, Vittoria e Ludovica. Anche lui era un tipo deciso e mi interrogava spesso sul mio futuro, su ciò che volevo fare. Io rispondevo che non lo sapevo, che mi sentivo una zingara scappata di casa, la buttavo sul ridere... Ma quando una volta gli chiesi: perché tu lo sai cosa vuoi diventare? Lui rispose serio: sì, il presidente del Coni. Aveva solo 28 anni!».
Idee chiare e determinazione...
«Accipicchia! Tanta determinazione e stabilità, forse troppa. Tanto che poi da Giovanni sono scappata a gambe levate come Willy il coyote».
Attrice affermata, tra cinema, teatro e televisione: è soddisfatta?
«Assolutamente no. Oltretutto detesto rivedermi, sono molto esigente, inflessibile, non mi piaccio quasi mai e do anche poca soddisfazione a chi lavora con me, tanto che i colleghi mi dicono: a Lucre’, e dattela una carezza ogni tanto... Eppure non ci riesco, sono ipercritica e mi prendo in giro da sola per i miei difetti».
È la voglia di migliorare sempre?
«Certo e anche di cimentarmi in ruoli diversi. Per esempio, mi capitano quasi sempre personaggi drammatici, tormentati, mentre mi piacerebbe affrontare una commedia dove possa emergere la mia indole, che è frizzante, allegra, per sfruttare il mio lato brillante».
Tuttavia adesso si prepara a portare in scena L’uomo dal fiore in bocca con la regia di Francesco Zecca, che non è un testo leggero, frizzante...
«Certo che no, parla di morte... E inoltre, sia pure rispettando in pieno l’opera pirandelliana, è un monologo dove io, nel ruolo della moglie del personaggio, che esiste nel testo originale ma non dice nulla limitandosi a spiare il marito, uso le parole del protagonista, cioè l’uomo che sta per morire a causa dell’epitelioma, il tumore alla bocca. Però...».
Però?
«Però sto lavorando a un progetto curioso: un docufilm su Lucrezia Borgia, diretto da Diego Schiavo e Marco Melluso».
Le due Lucrezie in scena?
«Ebbene sì. Due Lucrezie che hanno in comune, oltre al nome di battesimo, pure la vicenda dei papi. Lei figlia di Alessandro VI che salì al soglio pontificio prima di Giulio II, di cui io sono la discendente... E tra i due non correva buon sangue, al contrario, una forte rivalità».
Abbiamo iniziato ricordando mamma Marina. Lucrezia che madre è stata?
«Una madre ragazzina, sono cresciuta insieme alle mie figlie, che ovviamente hanno fatto le spese della mia inesperienza. I figli hanno bisogno di punti fermi, solidi, io cercavo di essere una brava educatrice, a volte mi inventavo di essere persino severa, ma ero ansiosa, spaventata dal fatto di non riuscire a essere una brava madre. Anche perché col mio mestiere, tra set e tournée, sono sempre stata in giro. Però per fortuna ho due bravissime figlie, che non fanno le attrici... E mi hanno dato quattro nipotini: tre femmine e un maschio».
Si fa chiamare nonna?
«E che mi faccio chiamare zia? Sono molto fiera di farmi chiamare nonna... Quando sento quelle vocine cucciolette che mi chiamano nonna Lu mi sciolgo, mi si apre il cuore... Poi scopriremo, strada facendo, se sarò capace di essere, almeno, una brava nonna».