White, bianca, come la rosa blanca della poesia di José Martí; Rosa come Rosa Parks, la signora che un primo dicembre di sessantasei anni fa, in Alabama, sull’autobus che la portava a casa, non cedette il suo posto a un bianco, come allora era previsto dalla legge e venne arrestata: il resto della storia ha fatto la storia.
Bill Clinton ha detto di lei: «Mettendosi a sedere, si alzò per difendere i diritti di tutti».
Anche il rap si alza per difendere i diritti di tutti, e lo fa andando verso il basso, verso l’interno: segue il beat, il ritmo, i BPM. Un movimento usuale dei rapper sul palco è spingere in avanti le mani, muovendole dall’alto verso il basso, in battere e levare, mentre salmodiano la loro preghiera, la loro canzone: il loro rap. To Rap, d’altronde, significa battere. E il ritmo, che nel rap è cruciale, è l’alternarsi di battere e levare.
«Mi hai costretto a imparare che qui ti devi battere o ti devi levare », canta Kento, rapper old school e scrittore, in Mia — Ode alla cultura hip hop , che è un omaggio al genere e, insieme, un racconto breve della sua vocazione, delle sue regole, della sua ricezione — Sei nel suono, il movimento, la parola e il graffito, noi due eterni, come verbi coniugati all’infinito; Per te riempivo pagine di una scrittura fragile, chi non ti conosceva diceva: quella è una facile .La ragazza protagonista del video di questo pezzo è Rosa White. Kento racconta a Repubblica di averla voluta perché gli serviva qualcuno che rappresentasse l’hip hop: una ragazza che fosse l’hip hop. «Lei è perfetta, ed è un mistero che non sia in classifica. Ha tutto: grande voce, splendida presenza sul palco, bella storia, belle storie ». E quasi zero social. Ha una pagina Facebook che aggiorna ogni tanto, e una Instagram aperta dal 2017, con ventiquattro post: sei all’anno.
Se ha da dire, scrive una canzone.
Dice a Repubblica: «Per me la musica c’è sempre stata. Sin da bambina, ho cercato le risposte alle mie domande nei dischi e nei libri, ed è quello che vorrei facesse anche il pubblico con me: usarmi come io uso Mina». In X , il suo pezzo più recente, canta: Faccio, non alludo. Fare è un verbo che usa spesso, le piace costruire, faticare, sudare: «e allora calce e cariola».
È fattiva, non pragmatica, ed è una differenza sottile ma fondamentale: il punto di distacco tra chi è nato negli anni Ottanta e chi a cavallo tra i Novanta e i Duemila. È bizzarro che i millennial, la prima generazione sfacciatamente educata al pragmatismo, siano stati piuttosto inconcludenti, mentre gli Z, educati dal virtuale e al virtuale, siano così operosi, efficaci, talvolta anche intraprendenti. E responsabili. Fanno da sé. Un aspetto antipatico di questo fare da sé, nel rap di nuova generazione, ha accentuato l’autoesaltazione: decine di artisti, spesso sbarbini, in questi ultimi anni ci hanno raccontato quanto sono stati bravi ad arricchirsi, a trasformare le loro mamme in regine, a costruire il proprio piccolo grande impero. Baby K, una delle prime rapper diventata mainstream nel nostro paese e quindi una di quelle che hanno costruito il ponte tra rap e pop italiano, nel pezzo che l’ha resa popolare, dieci anni fa, cantava: Non guardare chi sono ma guarda chi divento, una femmina a caccia il branco si alza dirigo la marcia mani nel fango io strillo non piango sopra un palco sguardo verso l’altro sono io e comando femmina alfa rivalsa e la massa si esalta.
Rivalsa e orgoglio, in Rosa White, sono assenti. Ed è questo a renderla così interessante, nuova. Anche se fa un hip hop classico, esente da trap e autotune, e molto vicino, invece, a Lauryn Hill e Rihanna — sì, proprio Rihanna: scriveva Billboard nel 2017 che era «ispirata dal suo idolo JAY-Z, ha scritto a lungo canzoni rap che l’hanno resa una principessa dell’hip hop e dell’R&B».
La trap, del resto, Rosa White l’ha liquidata in un verso — ‘sti spermatozoi con l’autotune — , così come in un verso ha sottolineato in che modo usa il passato — uso le ceneri del vecchio per fare il nuovo. In lei, sono nuove le parole.
In Ossidiana, il suo primo Ep, c’è la sua prima canzone d’amore. Fa così: «Post fata resurgo, mi uccidi e io a sfregio risorgo, sei colore nel grigiore del borgo, in cima a un pendio tu mi reggi io mi sporgo». Si rivolge a un ragazzo in carcere: è il suo uomo. Due anni dopo, la canzone d’amore che scrive Rosa White è Antidoto, e fa così:
Puoi farmi male se vuoi, tanto ho l’antidoto. Prenditi tutto di me, tanto ho l’antidoto, prendi tutto ciò che c’è, tanto ho l’antidoto. È qui che diventa chiaro il passo diverso rispetto a Baby K, all’autoesaltazione, alla rivalsa: tutte cose che contengono una volontà, più o meno velata, di preservarsi, risparmiarsi il peggio e avere sempre il meglio, ritenendo di meritare soltanto il meglio. Invece, la Rosa Bianca si porge «anche al crudele che strappa il cuore »: così, Rosa White è disponibile a tutto, a farsi fare tutto, perché può reggere tutto e perché per andare davvero incontro agli altri non si possono fare selezioni. Meritocrazia polverizzata. L’antipatica fissazione del farcela sempre ha qui un senso diverso: non si allaccia all’impegno fortissimo e strenuissimo che verrà di certo ripagato, ma a una forza innata. L’antidoto sei tu: ciascuno lo è per sé. Anziché rieducare gli altri, sanzionandoli e arginandoli, Rosa White dice: lasciati invadere, assorbi l’urto. È per questo che il corpo è così presente nel suo lavoro: “addosso” è un’altra parola importante per lei, e la disgiunge dall’evanescenza virtuale di questo tempo. Con il corpo si conosce, si rischia, si protegge.
Rosa White lavora in un fastfood, è cresciuta a Torre Angela, vive a Torre Maura e dice Kento che sembra un sindaco: ovunque vada, conosce tutti, parla con tutti, tutti la fermano, vogliono offrirle un caffè. Lei s’incarica di tutti.
Come compone? «Metto la base, ascolto il beat e sento cosa vuole. È come fidanzarsi: devi soprattutto dare per far combaciare le due strade, la tua e la sua».