Linkiesta, 31 agosto 2021
Considerare gli animali più importanti degli uomini
«Sono davvero profondamente triste per gli afghani», ha twittato Paul Farthing l’altroieri, arrivato in Inghilterra. Intendeva: gli afghani non evacuati. Avendo lui appena portato in Inghilterra un aereo pieno di cani e gatti. Che mica potevano restare in Afghanistan a soffrire, diamine.
Adesso mi metto qui buona e aspetto che i proprietari di animali mi dicano che sono un mostro a implicare che Farthing dovrebbe vergognarsi ad aver portato via centosettanta animali invece che esseri umani. Aspetto che mi dicano che la distinzione è specista (l’aggettivo con cui gli imbecilli definiscono il dato fattuale che un cane valga meno d’un uomo o d’una donna), e che mi dicano che comunque loro mica sono proprietari: «Io sono il suo umano», obiettano in tutta serietà, convinti che «padrone» non sia abbastanza inclusivo. Senso del ridicolo l’è morto.
Giorni fa Alessandro Cattelan ha instagrammato scene di spiaggia spagnole. Coi bagnanti c’era anche un cane, e nei commenti lo accusavano d’essere il solito famoso raccomandato: io volevo portarmi il cane in Spagna, arringava una rappresentante del popolo, e mi hanno detto che in spiaggia non sarebbe potuto venire, perché gli spagnoli non sono amici degli animali.
Cioè: sono un posto civile che non ritiene normale che animali e umani stiano negli stessi posti. Mi sono subito segnata la Spagna come prossima meta di villeggiatura. Anche se quasi tutti i posti sono, da questo punto di vista, più civili dell’Italia, dove i cani possono entrare nei ristoranti e nei negozi di alimentari, e sgrullarsi le pulci sul cibo che mi accingo a mangiare.
L’umana che mi affetta il prosciutto deve avere la cuffietta, ma il cane dev’essere libero di far volare i propri peli dove vuole: siam mica specisti.
Poiché la gente così priva di vita interiore da aver bisogno di mettersi un animale in casa è sempre di più, questa notazione è assai impopolare: anni fa misi su Instagram la foto d’un cane in un bar dicendo che mi pareva incivile, e i padroni d’animali se ne sentirono così offesi e la segnalarono così tante volte che Instagram – la cui sede è in California: dove i cani, civilmente, non possono entrare in luoghi in cui si mangi – la rimosse.
E all’epoca ancora non c’erano state le clausure da pandemia, durante le quali la gente s’è riempita casa di animali da compagnia (sempre quel problema ben sintetizzato dal padre di Natalia Ginzburg: non avete vita interiore).
Tra l’altro l’aumento pandemico degli animali aveva già portato, secondo quanto scriveva il Guardian a gennaio, a un parallelo intollerabile aumento degli escrementi di cane, i cui sacchetti strabordavano dai cestini londinesi. E non erano ancora arrivate le cacche afghane.
Anche in Inghilterra si può entrare col cane al ristorante. A meno che il ristoratore non sia eroico e non dica al cliente che no, lui con quel coso zozzo non lo fa entrare, catalizzando su di sé l’antipatia che lo Stato non ha il nerbo di attirarsi legiferando.
Sono eroismi rari. Nel dibattito su quale sia il miglior posto bolognese per comprare i tortellini, io tiferò sempre Atti, nonostante nulla m’importi dei tortellini e mi sembrino tutti uguali, perché fuori da Atti è apposto l’eroico cartello che indica dove lasciare i cani.
Nonostante lo sfinimento dei proprietari di animali che, quando gli chiedi quanto sia igienico far stare a un tavolo di ristorante un essere che ha pestato e leccato marciapiedi, ti ricordano – col tono di chi ha l’arma dialettica finale – che anche le tue scarpe hanno pestato il marciapiede. E infatti non le metto sul tavolo, quel tavolo dove io mangio e il tuo animale sta poggiando le zampe, mio non sveglissimo amico.
Allo sfinimento resistono i fornai di Atti ma non la repubblica italiana, che mai vieterà l’ingresso a quelli che dovrei essere così ruffiana da chiamare «i nostri amici a quattro zampe»: perché mai inimicarsi l’elettorato che si sente umano d’animale, solo in nome dell’igiene?
D’altra parte la repubblica italiana ha escogitato una forma di lasciapassare che parifica i vaccinati e quelli che hanno fatto un tampone l’altroieri. Sono in un ristorante al chiuso, convinta d’essere al sicuro perché per sedersi tutti hanno esibito il certificato verde; peccato che gli altri clienti, il certificato, possono benissimo averlo ottenuto con un tampone dopo il quale si sono infettati. Ma mica vorrai dire ai non vaccinati che non possono entrare in ristoranti in cui, letteralmente, possono entrare anche i cani?
Sono ancora una volta i ristoratori a essere eroici. Ce n’è qualcuno, già oggetto dell’ira degli antivaccinisti, che pretende non solo un certificato verde, ma uno conseguente a vaccinazione, non a tampone.
Sia lode al ristoratore disposto a inimicarsi il cliente, certo, ma possiamo affidarci all’eroismo del singolo? Non sarebbe meglio se certi coraggiosi coraggi – quale quello di dirvi che i vostri cazzo di cani dovete lasciarli a casa quando andate a mangiar fuori, o di dirvi che c’è una cazzo di pandemia e dovete vaccinarvi – se li assumessero le istituzioni? Anche perché, se ci si affida al singolo e al suo raziocinio, una volta si trova il panettiere che lascia fuori i cani, ma una volta si trova l’ex marine che evacua da zone di guerra i gatti invece degli umani.