Questo premio «è in sintonia con quel che ritengo giusto fare rispetto al mondo della letteratura: valorizza le esperienze di nicchia, mette insieme audiovisivo e letteratura, porta giovani sul palco di Venezia».
Cosa l’ha colpita?
«Intanto l’inventiva del linguaggio, sviluppi per nulla aderenti al testo, che richiamano lo spirito del libro con trovate originali e piene di idee.
C’è un tema comune forte, l’idea delle resistenze».
Quali sono le resistenze per lei?
«Mentre parliamo sto inchiostrando delle tavole che riguardano i viaggi che ho fatto in Iraq un paio di mesi fa, gli incontri con i partigiani e le partigiane. In questo momento, per me la resistenza è quella: persone che rischiano la vita per affermare un concetto di società più giusta ed equa. Nel piccolo del mio mestiere resistenza è cercare di tenere dei paletti culturali, malgrado ci siano posizioni considerate in certi momenti impopolari, che possono provocare piccole tempeste, piccole gogne o incompatibilità di posti in cui uno lavora. Penso che si debba tenere il punto in maniera pacata, restare fedeli a certi paletti».
C’è la resistenza delle donne in Afghanistan.
«È una delle questioni. In Afghanistan non usciamo da due posizioni: che bisognava andare via perché gli americani e la Nato non hanno fatto niente, o che non bisognava andare via perché abbiamo lasciato il Paese ai talebani.
Ciò di cui si parla troppo poco è: quali forze di resistenza interne al territorio in questi anni avremmo dovuto sostenere? Massoud è il nome su cui si concentrano tutti, perché è la controparte dei talebani sul fronte miliare nel Panshir. Ma ci sono altre forze che meriterebbero più attenzione. Penso a Rawa, l’associazione delle donne rivoluzionarie in Afghanistan.
Clandestine durante i talebani, sono uscite allo scoperto negli ultimi vent’anni, anche se con una posizione critica sull’occupazione americana, non era una soluzione che stava portando a una democrazia stabile in Afghanistan. Ora sono rientrate in clandestinità. Penso che vadano aiutate le forze sul territorio riconosciute, che conoscono tradizioni e società. Potremmo discutere di questo, non di andare a tirare le bombe».
C’è preoccupazione tra i curdi?
«La galassia delle combattenti curde ha subito espresso forte vicinanza alle donne afghane, che erano state le prime a manifestare per il Rojava, quando la Turchia ha invaso il nord della Siria. Tra i curdi ora il timore è il ruolo sempre più forte della Turchia nello scenario mediorientale. Un ruolo che viene usato per attaccare i curdi all’interno: mentre il mondo guarda all’Afghanistan ci sono stati bombardamenti e omicidi mirati nel Nord della Siria e in Iraq per spazzare via l’opposizione e i quadri curdi».
L’esperienza in Kurdistan con “Kobane calling” l’ha cambiata?
«Sì. Sono cresciuto con una bussola di valori, ma nessun modello di stato reale che li incarnasse. In Siria e Iraq, luoghi in teoria lontani da ciò che associamo a diritti e emancipazione, ho trovato un modello di società che incarna i miei valori. Questo mi ha dato un orizzonte: la possibilità di pensare che vale la pena scommettere su qualcosa».
Quanto è importante il suo rapporto con il cinema?
«Fondamentale. F ilm e concerti mi sono mancati moltissimo. La cosa che voglio fare insieme a chi voglio bene è andare al cinema, mi ha accompagnato per tutta la vita».
Gli autori che più la ispirano?
«Mattia Torre è stata la cosa migliore prodotta in questo Paese negli ultimi decenni, una perdita gigantesca. Ken Loach fa un bel cinema di resistenza.
Non ha la leggerezza che cerco di mettere nei fumetti, ma nel trasmettere al pubblico contenuti, anche radicali è ineguagliabile».
Prepara la serie “Strappare lungo i bordi”, pensa a un film da regista?
«Non un film live. Sono un maniaco del controllo e il cinema è un lavoro collettivo. Un film disegnato mi piace, faccio le prove con la serie per capire come funziona questo mondo, magari scopro che non sono capace».