la Repubblica, 30 agosto 2021
Tolstoj e il mistero di Tre morti
Nella Morte di Ivan Il’i? Tolstoj organizza il processo che la morte intenta alla vita imputandola di inesistenza, nell’uomo comune che più se ne protegge. La vita delle assuefazioni e della ripetitività sembra vincere, proclama che è la morte a non esistere affatto. Ma un caso, una banale contusione la introduce nel corpo di Ivan Il’i?. Se in Guerra e pace Tolstoj aveva cercato di comprendere l’Altro metafisico, contemplando il regno della morte, qui la guarda dritto negli occhi, dall’interno. Come nei meticolosi, astratti e meccanici processi di Kafka, tutto è motivato e totalmente immotivato. Affondato nel sacco, nel suo buco nero, con Ivan Il’i? Tolstoj vive in anticipo la vita tragica, dove alla fine è la morte a portare la liberazione, il barlume che oltre allo sbocco diventa luce radiosa: il terrore finisce, e la morte stessa «non c’è più».
Molti anni prima, nel gennaio 1858, dopo i Racconti di Sebastopoli, Tolstoj scrive Tre morti ( La morte di Ivan Il’i?. Tre morti e altri racconti, traduzione di Tommaso Landolfi, a cura di Idolina Landolfi, Adelphi, pp. 188, euro 12). Dal 1851 l’esperienza di immersione nel Caucaso lo trasforma. Sente in sé, come Olenin dei Cosacchi, «l’irrepetibile slancio della giovinezza»: è tutto il suo essere nel momento che sgorga alla luce e si espande: un impulso panico e orgiastico a fondersi con la natura, nella frenesia della caccia, un’esaltazione come scitica, e ferina. Ma mentre si lancia a esplorare se stesso, e scopre le sue possibilità di Proteo, vede le estraneità, le distanze che lo separano dal mondo selvaggio. Non c’è niente di più esemplare del breve racconto che mostra tre vite spegnersi, per esprimere il suo spirito giovanile verso l’esistenza.
Era d’autunno. Per la strada maestra procedevano al trotto due equipaggi. Una, magra e pallida, la padrona. L’altra, la cameriera, bene in carne, sanguigna e lucente. Colle mani in croce sul grembo e gli occhi chiusi, la padrona si dondolava debolmente, appoggiata ai cuscini disposti dietro la schiena, e spesso tossicchiava nel profondo del petto. Aveva in capo una bianca cuffia da notte, e, annodato intorno al collo fine e pallido, un fisciù azzurro. Sebbene tenesse gli occhi chiusi il suo volto rivelava la stanchezza, l’affanno, e una sofferenza abituale.
Il postiglione incitava a gran voce i quattro forti cavalli in sudore. L’ammalata arrovesciò il capo e aprì lentamente gli occhi, occhi grandi e brillanti di un bruno bellissimo. Dal petto della malata si levò un profondo sospiro che si volse in tosse. Ella aggrinzì il viso e si portò al petto tutte e due le mani. Quando la tosse fu passata, richiuse gli occhi e riprese la sua immobilità. Dal calesse scesero il marito della malata e il dottore, e si avvicinarono alla carrozza. «Come vi sentite» chiese il medico. «Sempre allo stesso modo», rispose la malata. «No, non scendo». «Bisognava rimanere a Mosca», replicò il dottore; «ma ditelo voi stesso, che altro potevo fare», ribatté il marito. «Ho fatto di tutto per trattenerla: non vuol sentir nulla. Fa progetti di vita all’estero come se stesse bene». «Guardate almeno di persuaderla ad aspettare che ci siano le slitte», disse il dottore tentennando il capo. «Sono diventata che faccio paura», pensò la malata, «potessi almeno essere all’estero! Lì mi rimetterò subito». «Se non ti avessi mai dato retta, a quest’ora sarei a Berlino e starei benissimo. Dio mio, perché», disse l’ammalata, e le sue lacrime scorsero più abbondanti. Pregò a lungo e con fervore, ma il petto le restava serrato e le faceva male.
Il postiglione entrò nell’isba. Nell’isba c’era un’aria calda, soffocante e greve, e si sentiva di pan fresco, di cavolo, e di pelli di montone. Sulle pelli di montone giaceva il malato. «Ebbene, Fèdja», disse al malato, «a te adesso gli stivali nuovi non ti servono più. Dammeli a me, tu adesso non camminerai mai più». L’infermo, coi radi baffi pendenti nell’acqua cupa, beveva a fatica, avidamente. La sua barba arruffata era sudicia, i suoi occhi infossatati e spenti. Finito di bere, egli volle alzare la mano per asciugare le labbra bagnate, ma non riuscì e si asciugò alla manica del pellicciotto. Intanto il postiglione malato restò sulla stufa nell’isba soffocante, si voltò sull’altro fianco e tacque.
«Ma che cosa ti fa male, zio»? Nastàs’ja dice. Il postiglione: «Mi fa male tutto dentro, lo sa Dio che cosa». «Ma che ti fa male anche la gola, quando tossi»? «Mi fa male tutto. È venuta la morte, ecco che cos’è. «Che sia morto davvero? Vado a vedere» disse uno dei postiglioni, ora desti. La magra mano coperta di peli rossigni che pendeva dalla stufa era fredda e cerea. Parenti, Fèdja non ne aveva, era di lontano. L’indomani lo seppellirono nel nuovo camposanto oltre il boschetto.
Venne la primavera. Per le strade bagnate della città, tra il ghiaccio sudicio mormoravano rivoli frettolosi. I rami degli alberi oscillavano appena al vento fresco. Da ogni parte colavano e stillavano gocce trasparenti... Le passere frullavano discorsi qua e là sulle loro piccole ali. In una grande casa signorile stava la morente che voleva andare all’estero. Presso la porta della stanza stavano il marito e una signora anziana. Sul divano era seduto il prete. Aveva un oggetto involtato nella sua stola. Il marito era agitato e smarrito. Il prete disse: «Nella mia parrocchia, c’era un malato, e lo guarì un mercante che adesso è a Mosca. Dio può tutto». Il marito della malata si coprì il viso colle mani e fuggì dalla stanza. La cugina sedeva presso di lei e cercava di prepararla al pensiero della morte. L’ammalata chinò il capo. «Dio, perdona questa peccatrice» mormorò. Il marito scoppiò in pianto. Il prete entrò dalla malata, e nella prima stanza si fece completo silenzio. Dopo cinque minuti il prete, toltasi la stola, si aggiustò i capelli, «Grazie a Dio adesso è più tranquilla», disse il prete. La malata piangeva sommessamente guardando la sacra immagine. «Lode a Dio, come mi sento bene ora, che ineffabile dolcezza provo», disse la malata, e un leggero sorriso le errava sulle labbra fini. «Come è misericordioso Dio! Non è vero che è misericordioso e onnipotente»? E guardò di nuovo cogli occhi pieni di lacrime. Il dottore le andò vicino, e le prese la mano. Il polso andava perdendo forza. Il dottore fece un segno cogli occhi al marito. La malata se ne accorse e si guardò attorno spaventata. La cugina si volse e si mise a piangere. «Non piangere, non tormentare te stessa e me», disse la malata. «Mi togli gli ultimi momenti di calma »! «Sei un angelo», disse la cugina baciandole la mano. «No, baciami qui, soltanto ai morti si bacia la mano, Dio mio, Dio mio»! La sera stessa la malata non era ormai che un freddo corpo, e questo corpo, chiuso nella bara, stava nel salone della grande casa. Il viso della morta era severo, calmo e maestoso. Niente si muoveva, né sulla pura, gelida fronte, né sulle labbra fortemente serrate. Ella era tutta attenzione. Dopo un mese, sulla tomba della signora era sorta una cappella di pietra. Quella del postiglione non aveva ancora lapide. «Fai peccato, Serjòga», disse una volta la cuoca «se non compri la pietra a Fjòdor, dicevi quest’inverno quest’inverno, e adesso che è primavera, perché non mantieni la parola? C’ero io presente». «Ma forse mi tiro indietro»? rispose Serjòga, «la pietra ho detto che la compro, e la compro. Di un rublo e mezzo, la compro. Non mi sono scordato». «Ci dovresti almeno mettere una croce», disse il vecchio postiglione, «se no veramente non va bene». «E dove la piglio la croce?». «Prendi un’accetta e vattene al bosco di mattina presto. Puoi tagliare, che so, un frassino, ed è fatta. Se no paga da bere al guardaboschi. Quello è uno che non si sazia mai».
La mattina presto all’alba Serjòga prese l’ascia e andò al bosco. A un tratto un suono inusitato si levò e si spense sul margine. Ma ecco di nuovo si fece udire. Una vetta ebbe un insolito fremito. Le sue foglie sussurrarono qualcosa, e un pettirosso posato su un ramoscello volteggiò due volte fischiando. I colpi di scure suonavano sempre più sordi. L’albero trasalì con tutto il suo corpo, si piegò e subito si raddrizzò. Per un attimo tutto tacque, poi di nuovo l’albero si piegò, di nuovo scricchiolò nel tronco, e si abbatté colla cima sulla terra. Si spense il rumore della scure e dei passi. Il pettirosso fischiò e volò più in alto.
I primi raggi del sole, trapassando una diafana nube, brillarono in cielo. A ondate la nebbia cominciò a riversarsi nei valloni, la rugiada a ribrillare fra i verdi, e le nuvolette vogavano in fretta per la volta del cielo ormai mattina. Gli uccelli saltellavano nel folto, e, come smarriti, cinguettavano qualcosa di felice. Le foglie succose sussurravano sulle cime, e i rami degli alberi vivi lentamente e maestosamente s’agitavano sul morto albero abbattuto.