Corriere della Sera, 29 agosto 2021
L’italiano, fedele al suo suono
Quando si parla di Dante «padre della lingua italiana», il rischio della retorica è sempre in agguato, specie in un anno di celebrazioni come questo. Eppure l’affermazione è fondata, come riteneva anche Tullio De Mauro, un grande linguista certo non sospetto di spiriti patriottardi.
Intanto, è indiscutibile la continuità fonetica: Dante parlava come un italiano, o meglio un fiorentino colto, dei nostri giorni. Spicca in proposito la differenza col francese: Ferdinand de Saussure, il fondatore dello strutturalismo, faceva osservare che roi «re» si pronunciava «rei» nell’XI secolo, «roi» nel XIII, «roè» nel XIV e «ruà», che è la pronuncia attuale, solo nel XIX. Anche la morfologia è in gran parte coincidente: cane faceva al plurale cani, il congiuntivo imperfetto di essere era fossi, il pronome personale di seconda persona era tu con valore di soggetto e te negli altri casi. Ma colpisce la non trascurabile continuità del lessico, che è la parte, in ogni lingua, più soggetta al cambiamento.
Esaminando parola per parola una porzione non indifferente del poema – quindici canti in tutto, equamente distribuiti fra le tre cantiche – emergono 116 prime attestazioni delle quali il 45% è rappresentato da parole tuttora vive, alcune delle quali di uso corrente, come cigolare, azzannare, muso, mensola, assenso, collega, costellato, fertile, muffa, parallelo e diverse altre. Queste dieci parole non hanno nulla di «dantesco»: sono parole che il poeta ricavava dalla propria esperienza di parlante (cigolare, muso), dal latino classico o medievale (assenso, collega, fertile) o da meccanismi di formazione delle parole insiti nella coscienza linguistica di ogni parlante nativo, come per azzannare (o meglio assannare), verbo parasintetico ricavato da sanna, la forma antica per zanna.
Ho scelto questi esempi in modo da dare un’idea della distribuzione nelle tre cantiche: quella più ricca di parole nuove, ossia di parole che non risultano documentate in un testo precedente alla Commedia, è il Paradiso, che copre oltre la metà delle attestazioni. Nel Paradiso si trovano tipiche coniazioni dantesche, come i due verbi parasintetici di uno stesso verso, dal canto nono: «S’io m’intuassi come tu t’inmii», cioè «se io potessi penetrare nella tua mente, come tu puoi entrare nella mia»: sono le parole che Dante rivolge a un’anima beata, quella di Folchetto da Marsiglia. Ma non solo: c’è anche spazio per muffa e collega, che per noi sono parole di tutti i giorni.
Quando Dante scrive la Commedia l’italiano esisteva da circa un secolo, tuttavia era una lingua letterariamente evoluta solo in alcuni settori: la poesia lirica, prima di tutto, e certi ambiti della prosa, grazie soprattutto ai volgarizzamenti di opere storiche e retoriche dal latino o dal francese. Ma Dante inventò una prosa scientifico-filosofica, col Convivio, rifletté per la prima volta sulla lingua nel De vulgari eloquentia, disegnando l’ideale di un «volgare illustre» che non coincide con nessuno dei dialetti parlati in Italia e, con la Commedia, «mostrò ciò che potea la lingua nostra», per adattare alla fattispecie le parole che pronuncia Sordello, nel settimo del Purgatorio, quando si rende conto di trovarsi di fronte a Virgilio.
Nella Commedia Dante sfrutta per la prima volta le potenzialità espressive del dialogo. In un canto famoso, quello di Farinata, leggiamo: «Volgiti! Che fai?/ Vedi là Farinata che s’è dritto». Magari è necessario qualche maquillage linguistico rispetto all’italiano d’oggi, che riguarderebbe il pronome personale (el diventerebbe egli o, meglio ancora, lui) e, in modo meno stringente, il lessico: «voltati» o «girati» invece di volgiti e «levato» o «alzato» invece di dritto. D’altra parte è ancora vivissimo il che fai?, che non è una vera domanda, ma una formula fraseologica per richiamare l’attenzione di qualcuno.
Accostarsi a un poeta come Dante implica che si guardi non solo alla sua lingua ma al suo stile. Tanto più necessaria, questa prospettiva, tenendo conto che lo stesso Dante aveva trattato di stile in pagine ben note del De vulgari eloquentia: pagine importanti, lo abbiamo accennato, ma che non debbono essere prese come un modello condizionante per le scelte espressive compiute nel poema. Sia perché i tempi di composizione non sono gli stessi, sia e soprattutto perché il poema non è scritto nel «volgare illustre» teorizzato nel trattato latino, ma adotta lo stile «comico», che permette a Dante – in tutte e tre le cantiche, sia chiaro – di variare i registri a seconda della situazione rappresentata.
Nella storia della poesia italiana Dante ha inciso meno di Petrarca: fino al Cinquecento non si contano gli imitatori del poeta di Laura, che ne ripetono le situazioni tipiche (donna irraggiungibile, amore impossibile eccetera). Ma, se dovessimo citare i nomi di imitatori di Dante, o almeno di qualche aspetto saliente della Commedia, finiremmo con l’evocare nomi legittimamente sconosciuti ai più, come i trecenteschi Fazio degli Uberti col Dittamondo e Federigo Frezzi col Quadriregio. Però la Commedia è stata presente nell’orizzonte dei letterati già nel decennio della sua morte, attraverso un numero elevato di commenti; e ha circolato altresì, mandata a memoria, anche presso i ceti più umili, specie nell’Otto e nel Novecento.
Tra le tante testimonianze utili, possiamo citare quella di Innocente Bianconi, studiata dall’italianista svizzero Renato Martinoni. Bianconi era un migrante semianalfabeta del Canton Ticino che partì per l’America nel 1875 e scrisse un diario, in cui affiora un Dante evidentemente imparato a memoria, col valore di un’icona comunitaria, tanto più notevole perché non proviene da un cittadino dell’Italia appena unificata, ma da uno svizzero, per quanto italofono. Per esempio, per indicare il ritorno al lavoro di arrotino dopo la pausa domenicale, Bianconi annota: «Ritorniam alle dolenti note», con un richiamo, forse persino inconsapevole, a Inferno, 5 25-26 «Or incomincian le dolenti note/ a farmisi sentire».